Alla Cascina Roma di San Donato Milanese dove l’Assessorato alla Cultura e il  Sindaco della città sono da sempre attenti alle arti e alla cultura più raffinata  è da vedere  una bellissima antologica di Giusy Santoro, dal titolo “Dal segno al colore”, artista di chiara fama, e nobile soprattutto di cuore e di creatività, che non s’è mai confusa con il clima e l’andazzo del superficiale, del mercato arraffone e della produzione insistita. La mostra vive anche di un nobile corredo di immagini fotografiche che ripercorrono gli esordi di Giusy Santoro, la frequentazione dell’Accademia di Brera e delle aule degli artisti-docenti  Aldo Carpi  e Domenico Cantatore, senza tralasciare  la nobile  figura di Eva Thea, storica dell’arte. Anni memorabili, anni di formazione, anni di crescita e di esercizio che hanno lasciato impronte memorabili in numerosi disegni di quel periodo, oggi  in mostra.  E poi nelle  diverse sale scandite per periodi i diversi capitoli di lavoro e di ricerca.  Intanto una ricerca iniziale degli anni Cinquanta Sessanta tutta avvolta dalla neofigurazione, un repertorio iconografico che attinge a un’Italia ancora contadina nel suo contenuto, ma risolto con una materia pastosa e brillante. Poi il capitolo degli anni Settanta, una sorta di “astrazione geometrica” anche con grandi opere che svelano la frantumazione dell’immagine, ormai ricostruita attraverso un segno fatto di geometrie  e di tonalità che mi hanno fortemente sorpreso; tonalità pastellate che vivono l’avvicendamento della costruzione, spesso volte persino plastico. Disseminate fra le sale e i teleri dipinti, anche talune bellissime sculture in ferro e in ceramica, veramente di grande finezza estetica tanto da poter essere collocate, in scala, su grandi piazze italiane.  Ancora il capitolo  del lavoro informale di Giusy Santoro che argomenta non solo l’effusione della materia, quasi che cominci da zero, ma la fa ritrovare sulla tela come corrosa da un tempo che vi batte a tratti, per cui sembra mostrare i suoi quadri come si mostra una ferita, secondo gli stilemi del pudore. C’è di più, il suo è un  esercizio mentale, d’avanguardia, che volge verso un paesaggio astratto, selvaggio e dinamico, trasfigurato da finestre di colore che affiorano qua e là, fruga la realtà sotto il profilo dell’avventura, e ogni fantasia diventa cifra capillare, stazione di meditazione e di pausa. Materia e colore vivono questa solennità astratta e il mondo informale, risorge tra spessori e frantumi, tumulti, urti, gorghi, graffiature e soprattutto ai  toni che sanguinano. Dietro ogni dipinto c’è una tessitura ideativa di forte spessore, grazie alla  costruzione e al colore, portando  questa pittura ad essere anche documento carico di spessore omogeneo. Esibisce le difficoltà sacrificali dell’io dilacerato e consunto soprattutto fisicamente, ritrova l’uomo d’oggi nelle deserte oasi, descrive piuttosto che le monotone verità dell’uomo, l’iconologia spettrale con una penombra che  invade con  abbagli. Poi in taluni dipinti, a quell’irrequietezza dell’immagine, alla simbolicità che affoga  in un mare di colore monocromo o bidimensionale, si adegua quasi liturgicamente, come calasse dal cielo una sorta di misticismo orgiastico, una superficie  capace  di valori percettivi con stimolazioni emotive e inconsce. Bagliori come giochi di teofania, vale a dire apparizioni del divino attraverso la luce. Monocromi o poco più, con il privilegio del bianco, certi dipinti recentissimi che non  devono leggersi in antitesi a quelli dove vi partecipa l’immagine figurale. Semmai quell’immagine irrequieta  via via è divenuta ossificazione del simbolo, divenuta poi  naturalmente nuvola di colore. Qui la presenza di Philip Guston e Hans Hofmann è più certa, proprio nei fondi con stesure monocrome, interrotte da presenze dai margini sfumati. I dipinti  di Giusi Santoro paiono così  pareti colorate, un segnare un di là e un di quà del mondo. Le tinte, poi, fanno si che l’opera non sia una parete che divide, ma il punto generatore di uno spazio sempre nuovo. Giusy Santoro  con questi nuovi dipinti  pare quasi saturare i colori, e  in queste grandi dimensioni una generale assenza di profondità fisica è sopperita da una profondità spirituale capace di riferire capacità trasformative; il quadro non rappresenta più cose, ma è cosa in sè, non  racconta più, è già compiuto e sufficiente  a se stesso, leggendosi  materia colorata.

 Carlo Franza

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