Gino Luggi (Bisenti-Teramo 1935) è un artista al di fuori della mischia, appartiene cioè a un manipolo nutrito di artisti che in tutto il mondo si sono votati al “Madì”. Madì (Materialismo dialettico) vuol dire costruire, fare l’arte senza significarla, ne basta l’estetica, il gioco della bellezza, al di fuori di geometrie contornate, di significanti filosofie. Dagli anni Novanta ormai si sono formati i gruppi madì in Belgio, Italia, Ungheria, Francia, e Stati Uniti, anche se il movimento è nato ufficialmente nell’istituto francese di Buenos Aires nel 1946, ad opera di Arden Quin. Luggi si è portato fin dagli anni Novanta del Novecento verso la tridimensionalità nella scultura e la bidimensionalità in pittura. C’è da dire che questo tipo di lavoro Luggi lo faceva già tra gli anni Settanta e Ottanta, non in modo conscio , e solo dal ’90 superando la bidimensionalità si è portato verso il rilievo. Invenzione e libertà sono le caratteristiche anche di questo lavoro che vive di raffinata eleganza di forme in divenire e in rilievo, di toni e colori che spaziano su campi larghi e stretti, facendo vivere i piani in libertà e verso contorni illimitati. L’infinito non ha forme costrette, sicché il suo operato è come sagomato, concreto, costruito, astratto, e soprattutto tensivo. Una forma in tensione può spingersi da qualsiasi parte e inventarsi lì per lì nuovi mondi, nuove superfici. Opere aperte, vivono oltre i bordi stessi della prima matrice, e ad essa altre se ne aggiungono suggerendo l’illimitatezza. Lo spazialismo tagliava lo spazio, il neospazialismo madì di Luggi sborda gli spazi con interventi prima mentali, argomentandone le tensioni interne a ogni forma e spingendosi ulteriormente, in alto e in basso, ma anche da destra a sinistra alla ricerca di nuove e imprevedibili superfici. Così cresce un minimalismo di forme e colori, di forme unitarie ma anche autonome e letterali, sicchè con la sua gestalt minimalista uno vede immediatamente e crede che i modelli della mente corrispondano al fatto esistenziale dell’oggetto. Con Luggi abbiamo uno scenario in cui il minimalismo delle forme aperte è di nuovo posto in una complicata relazione con il discorso tardo-modernista. E se pittura e scultura erano diventate forme troppo rigide, l’uso delle tre dimensioni non è l’uso di una forma data in termini di ricontestualizzazione. E allora quello che parrebbe lontano dalla tradizione e dal passato, vive per la qualità non solo degli antichi maestri e di una geometria in divenire, ma anche dei grandi moderni e soprattutto per l’analisi delle categorie estetiche (materialismo dialettico) e per le trasgressioni di forme esistenti. Ecco la cornice da cui uscire, ecco che il lavoro colto eppure ludico di Gino Luggi sfugge a qualsiasi critica normativa per porgersi a composizioni aperte dentro e fuori, a quest’estrema opposizione che diventa eccessiva devozione. E questo lavoro dell’artista italiano ha così fatto il giro del mondo dall’Europa alle Americhe, all’Australia con mostre museali di vitale importanza, sottolineando una storia lineare che suggerisce spunti nuovi a tutta l’arte in divenire.

 Carlo Franza

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