Tra le nobili attività dello Storico Liceo dell’Accademia di Brera a Milano(Via Hajech 27) annualmente vi sono due mostre storiche che da qualche anno hanno forte valenza e danno alla città di Milano e ai licei artistici d’Italia e del mondo campionatura di ciò che l’arte è stata nel Novecento. Quest’anno con il cambiamento di Dirigenza, e con la presenza subentrante per l’appunto della dottoressa Emilia Ametrano, ecco una mostra messa in piedi nello Spazio Hajech del Liceo che vale come storicità, pedagogia dell’arte e conoscenza di linguaggi persino concettuali. La mostra ha per titolo “La scuola del silenzio. Monocromi rossi” e la presenza forte di nomi di chiara fama, Pino Pinelli, Turi Simeti, Armando Marrocco, Giuseppe Amadio, Vincenzo Parea, Vincenzo Pellitta, Pino Di Gennaro, Bruno Mangiaterra, Eugenia Serafini, Enzo Forese. Il loro lavoro si sintonizza su una linea ben chiara che dagli Anni Cinquanta in poi svolge segnali e svolgimenti di forte presa concettuale. Non sono i soli certo, vivere intanto una campionatura serve anche agli studenti di Accademie e licei. All’inizio degli anni Cinquanta del Novecento — riprendendo talune accensioni già proposte dal dadaismo e

dall’astrazione costruttiva dei primi decenni del Novecento — molti artisti, in Europa e negli Stati Uniti, sviluppano un’astrazione radicale che sfocia nell’azzeramento della pittura attraverso il monocromo e il vuoto. Con queste ricerche il superamento “materiale” e “concettuale” delle arti tradizionali torna con forza al centro della pratica artistica, attraverso una serie di manifestazioni parallele che dilagano dagli Stati Uniti all’Europa. Dal 1950 Mark Rothko aveva già individuato in forma definitiva quello che il critico americano Harold Rosenberg ha definito «il suo simbolo dell’assoluto disincarnato», cioè la campitura sulla tela di ampie velature rettangolari, modulate emotivamente, che manifestano la sua aspirazione ad un colore puro e privo di ogni possibile referente esterno. Tra il 1949 e il 1950 Robert Rauschenberg realizza i propri monocromi bianchi (White paintings) che costituiscono la precisa realizzazione pittorica delle suggestioni estetiche proposte dal compositore John Cage. Lo sconfinamento oltre i canoni della pittura, della scultura e dell’architettura tradizionali comporta, infatti, una nuova centralità delle strutture non immediatamente materiali dell’arte (come il ritmo e il concetto) in parallelo con le innovative proposte della musica contemporanea. La figura di Cage costituisce senza dubbio un importante punto di riferimento per la maggior parte degli artisti che si affacciano sulla scena internazionale negli anni Cinquanta. Le sue composizioni e i suoi scritti teorici ebbero ampia diffusione nell’ambiente artistico (non solo musicale, ma anche pittorico e teatrale) newyorkese; ad essi sono, in parte, riconducibili, solo per fare alcuni esempi, il rinnovato interesse per Duchamp ed alcuni spunti teorici presenti in Robert Rauschenberg e Jasper Johns, il recupero del pensiero estetico orientale, alcune procedure di compartimentazione e straniamento impiegate dal Living Theatre e dagli artisti degli Happenings o di Fluxus. In contemporanea in Europa, i “Concetti spaziali” dell’attività matura di Lucio Fontana, le “Proposizioni monocrome”, il “Vuoto” e le “Zone di sensibilità pittorica immateriale” di Yves Klein rappresentano le prime significative svolte contro lo sbordante sensualismo dell’informale internazionale, inaugurando un complesso panorama di nuove tendenze artistiche neo-dadaiste, radicalmente neo-costruttive e ottico-cinetiche, nelle quali l’attitudine dell’autore e l’esperienza estetico-percettiva dello spettatore prevalgono sulla presenza materiale dell’oggetto artistico. Alla fine del decennio, nella primavera del 1960, lo Städtisches Museum di Leverkusen, diretto dal critico Udo Kultermann, offrirà la prima mostra di sintesi sul fenomeno della pittura monocroma (Monochrome Malerei appunto), dedicata a una valorizzazione ecumenica di una corrente pittorica che ormai aveva raggiunto ampi esiti di affermazione sulle due sponde dell’Atlantico. In Italia, forse per l’esistenza di una forte tradizione storica squisitamente figurativa, il monocromo difficilmente ha i toni del radicalismo che lo caratterizza in America, tuttavia, negli anni ’50-’60, complice una diffusa tendenza verso uno stile minimalista di importazione americana, questo stile pittorico ha raggiunto significative affermazioni anche da noi. Sulla scia di varie esperienze europee, ovvero dell’Informale, dell’Astrattismo e dello Spazialismo di Lucio Fontana, parecchi artisti italiani si sono confrontati con il tema del monocromo, spesso utilizzandolo in chiave polemica, non fine a sè stesso ma come espressione di contestazione con forte carica idealistica in un periodo di grandi mutamenti, di completa rottura con la tradizione e il passato. In questo contesto, in cui l’Astrattismo pare giunto al capolinea delle sue sperimentazioni, lo scotto che la pittura ha dovuto pagare per poter capire ed esprimere la sua concettualità è stato quello di annullarsi per rinascere (come non-pittura). La differenza tra ciò che il monocromo rappresenta in America ed in Europa sta nella sua diversa strumentalizzazione da parte degli artisti, si può dire, in un certo senso, che quello che là è un fine, qui è un mezzo, quello che là è un comportamento qui è un atteggiamento. Alighiero Boetti propone la tela trattata con un solo colore come traccia dell’assoluto e utilizza il monocromo in complesse installazioni ambientali, Lucio Fontana travalica il limite della superficie monocromatica piana bidimensionale per aprire l’opera allo spazio tridimensionale, Enrico Castellani movimenta lo spazio bidimensionale della superficie creando sulla tela rilievi ed avvallamenti secondo un preciso ritmo compositivo in un sapiente gioco di luci e ombre che suggeriscono la terza dimensione. Piero Manzoni inventa i suoi “Achrome” stendendo sul supporto impasti di gesso e caolino che lasciano inalterato il non-colore della materia grezza, opere impersonali e auto-significanti, Maurizio Cattelan ne fa il mezzo per prender in giro in modo sarcastico i famosi tagli di Fontana squarciando la tela con il segno di Zorro. E via via su questa linea hanno proseguito Agostino Bonalumi, Pino Pinelli, Turi Simeti, Armando Marrocco, Giuseppe Amadio, Vincenzo Parea, Vincenzo Pellitta, Pino Di Gennaro, Bruno Mangiaterra, Eugenia Serafini, Enzo Forese, e altri che seppure non totalmente catturati dal monocromo vi hanno però dedicato almeno un capitolo. E’ così che, soprattutto in Europa, il monocromo è un mezzo di analisi dei fondamenti stessi della pittura attraverso i suoi elementi formali più essenziali, il colore e la materia, sui quali l’artista esercita un controllo estremo, spesso con una programmatica negazione di tutti i valori tradizionali in grado di decretare l’inevitabile “unicità” dell’opera d’arte. E in un tempo di forte crisi morale e sociale, in cui l’arte non può essere che autoreferenziale per una diffusa mancanza di valori, il monocromo è l’unica soluzione possibile, il punto estremo di una ricerca tesa al raggiungimento di un campo neutro di discussione e di confronto per recuperare il senso dei processi formativi della pittura. E dunque, la proposizione di questa mostra articolata come “La Scuola del Silenzio. Monocromi rossi”, anche con la sola scelta di un colore, il rosso, ha vita come trama di percorso del terzo millennio, dove a una globale povertà di idee e a un mondo in crisi con se stesso e con gli altri, può seguire e ritrovarsi, finalmente, una soglia di riflessione forte, perché il monocromo rosso è ormai soglia di attenzione, attesa e speranza.

Carlo Franza

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