Immenso l’interesse dei collezionisti per la rivisitazione e l’approfondimento del lavoro artistico di taluni maestri dell’arte mondiale del Novecento, com’è il caso della mostra di “Kenneth Noland. Opere 1958-1980”, artefice dell’espressionismo astratto, in corso nella Cardi Gallery, punta di diamante fra le gallerie milanesi. Di grande efficacia paiono i lavori a campitura “piatta” ,che vanno bene a significare quel rapporto che legava Noland a Clement Greenberg critico statunitense di spessore (1916-1994)- appoggiava infatti il “colour field” ovvero pittura a campi di colore- ; quest’ultimo sostenne fin da subito il valore di queste sperimentazioni, faticava tuttavia a trovare in esse un naturale posizionamento nella poetica dell’astrattismo statunitense degli anni Cinquanta, vedendo il pittore di Asheville più come un anticipatore delle tendenze “anti-pittoriche” degli anni Sessanta che come un acuto interprete degli sviluppi dell’Espressionismo Astratto. Per Greenberg la non-pittoricità corrispondeva all’estetica dello “sharp edge” tutta presa dalle sporgenze e dalle spigolosità, a quelle tendenze, ben esemplificate – oltre che da Noland – da Frank Stella (1936), che acquietavano la pennellata fino a far conferire alla superficie un aspetto essenzialmente grafico e forsanche decorativo. In quest’ottica, qualcosa non quadrava, e la figura di Noland, in Greenberg, è così rimasta irrisolta. Alcune opere esposte da Cardi, anche quelle non più recenti, portano a individuare come Noland abbandonava sì il gusto della pennellata, ma non il trattamento materiale, fisico del colore. C’è in lui quel riferimento oggettivo alla forma che Michael Fried (1939), altro critico e storico dell’arte statunitense, apprezzava in lui e, soprattutto, in Stella; ma rispetto al collega la natura concettuale, linguistica di questo formalismo era assai più sfaccettante. Le superfici di Noland sono sempre in discussione, la relazione supporto-forma si configura come un’ accensione di sguardi, con possibili e multiple letture, piuttosto che come un reciproco sforzo di sostenibilità; se in Stella l’occhio percorre la superficie dai lati al centro e viceversa, in Noland lo sguardo si frantuma in direzioni diverse, cerca uno sviluppo al di fuori della cornice (potremmo azzardare l’idea d’essere stato quasi un anticipatore del Madì ), e una foto d’epoca riportata nel bel catalogo che accompagna la mostra, in cui l’artista accosciato “taglia” uno spazio a losanga da una tela disposta sul pavimento, sembra assecondare questa impressione. Per Noland, insomma, lo spazio delimitato dalla cornice è un confine da superare, e la forma, anziché essere dalla materia, è precedente ed eccedente rispetto ad essa. Al piano terra cattura lo sguardo l’enorme “Via Bound” (1970), uno degli “stripes” in cui sperimenta per la prima volta l’utilizzo della tela non preparata alla ricerca dell’apparenza più immateriale della pittura; poi il caratteristico incrocio di linee ortogonali di “Call” (1973), tratto dalla serie “Plaid” e alcune “Shaped canvases”, dove l’asimmetria del supporto esaspera l’astrazione, negando l’essere proprio del quadro inteso come “finestra sul mondo”.

Alcuni lavori più tardi, esposti al piano superiore della galleria, – come un “Target” del 1958 che attende sul fondo della sala per catturare lo sguardo a ogni passo con la sua irresistibile combinazione di colori- mostrano poi un particolare trattamento del colore; una “Shaped canvas”, ad esempio, presenta una striscia rossa nella quale la superficie appare increspata, risultando del tutto diversa, dal punto di vista materiale, rispetto alle zone adiacenti. Lo strato di colore non è più solo una campitura piatta secondo l’ottica proposta da Greenberg come carattere essenziale della pittura “di tipo americano”, ma vive per una matericità tattile – colore steso su tela grezza- che avvicina l’opera allo status di oggetto. Noland si scosta dunque, parzialmente, dalle ricerche dell’astrazione “post-pittorica”, e si avvicina piuttosto ad alcune contemporanee tendenze europee (la Pittura analitica su tutte), ma soprattutto agli esiti di quelle ricerche, da Rauschenberg a Johns, con le quali aveva avuto familiarità negli anni di formazione al Black Mountain College, nella sua città natale. Artista colto, misterico nell’uso del colore, dove il colore è esso stesso sentimento, espressione dell’ inesprimibile e le campiture diventano finestre sul mondo, finestre tra cielo e terra.

Carlo Franza

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