baruchello-massimo-de-carlo-london-(1)                           Lo stupore non finisce mai. Ci vorrebbero ore, giornate intere per guardare, capire, ma soprattutto lasciarsi andare ai mille segni grafici, alle parole, gli abbozzi di segni, i rimandi ad altro, i paesaggi anatomici, le allusioni che indicano qualcosa e poi virano in un’altra direzione, le onde, i passaggi che Gianfranco Baruchello lascia sulle tele di alluminio e che mette al riparo nelle sue scatole.
L’inaugurazione che c’è stata poco tempo fa  -e la mostra è ancora in corso- presso la sede londinese della Galleria Massimo De Carlo a South Audley Street è stata una festa per il grande vecchio Baruch, con presenze italiane da tempo vicine all’artista, tra gli altri: Andrea Viliani e Alessandro Rabbottini del Madre, che ha ospitato un ciclo di video di Baruchello, Vincenzo De Bellis e Edoardo Bonaspetti per la Triennale che un anno fa gli dedicò una grande mostra (co-curata da Rabbottini), Francesco Bonami, e poi collezionisti e critici. Vi ero anch’io ed è stata credetemi una vernice fuor dal comune. Ma l’inaugurazione è stata anche una sorpresa, sebbene chi lo conosce, sa della sua straordinaria capacità di lavoro, l’ossessione per il segno e l’immaginario che si dipana senza sosta da un disegno all’altro, da una tavola all’altra. Ma la sorpresa rimane, per la delicatezza, la raffinata minutezza dei mondi lillipuziani esposti lì, dinanzi  a noi. Che paiono  non concludersi mai, ma raccontare, e ancora raccontare tutto ciò che c’è di raccontabile e oltre.
La mostra comincia con un trittico situato nella vetrina della galleria che raffigura il corpo femminile: una doppia testa, un doppio busto, due gambe. Elementi doppi perché si schiudono alla vista e rivelano un mondo interiore che Baruchello esplora con attenzione. È un trittico bellissimo, bianco, delicatamente solcato dal nero della grafite, con qualche incursione di rosso che segnala i punti più nevralgici di questo ritratto femminile. Il bianco e nero è il leit motiv anche delle scatole presentate al piano di sotto delle galleria, che per la prima volta Baruchello chiude con delle lastre trasparenti su cui disegna e che fanno una leggera ombra ai disegni delle altre cinque pareti della scatola. Pochi colori invece emergono nelle grandi tavole del piano terra. Qui il tema sembra farsi più astratto e le delicate mappature su alluminio sembrano evocare la modalità del funzionamento del pensiero, una fluidità di immagini e di narrazioni, senza rinunciare a quell’ironia che accompagna tutta la produzione dell’artista.

Guardare veramente tutte le opere, fatte in due anni di intenso lavoro, è quasi un’impresa forte e significante, anche con la paziente guida di Carla Subrizi, compagna di Baruchello. Ma, credetemi, visionare una mostra così di spessore, così lucida, così italiana e internazionale, è cosa fuor dal comune, perché l’artista Baruchello ci consegna il suo mondo, che potrebbe essere anche il nostro se questa società non fosse così in decadenza.

Carlo Franza

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