103749-Schermata_2019-06-07_alle_09_03_5020-dsc01196-ph.oknostudio-perwebLa video installazione Interregnum di Adrian Paci (Scutari, 1969) è stata scelta per il dialogo che instaura con la mostra The Missing Planet, una ricognizione dell’arte post sovietica a partire dalla collezione del Centro Pecci; è visitabile fino al 23 agosto 2020 al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci. Interregnum (2017) presenta un montaggio di sequenze di funerali di dittatori comunisti di diverse nazionalità ed epoche, recuperate dagli archivi di stato o dalle trasmissioni televisive albanesi. Il video collega diverse realtà comuniste attraverso il linguaggio condiviso del dolore e del lutto. Interregnum mostra dapprima uomini, donne, bambini ripresi in primo piano, in lacrime, per poi passare a inquadrature da lontano, che li vedono ordinati in code chilometriche: il corpo individuale diviene un corpo collettivo che occupa i grandi spazi urbani. Il film rivela da un lato il dolore dei singoli che, come ricorda l’autore, “non era contemplato nella società comunista” ma che tuttavia si manifesta irrefrenabile, liberato dalla morte dei leader, dall’altro ci fa assistere a un crescendo in cui la manipolazione delle masse e la spersonalizzazione dell’identità individuale ad opera dei regimi diventano sempre più evidenti.

The Missing Planet  apre un nuovo programma di mostre, ideato dalla direttrice Cristiana Perrella e dedicato ad approfondire temi, periodi e linguaggi della collezione del Centro Pecci, affidandone la cura ad un esperto invitato come guest curator e affiancato dal responsabile delle collezioni e archivi Stefano Pezzato. La cura di questa prima mostra è affidata al collega  Marco Scotini che ha integrato decine di opere della collezione del Centro Pecci con altre provenienti da importanti collezioni e istituzioni italiane e internazionali, per comporre una ‘galassia’ delle principali ric10-dsc02353-ph.oknostudio-perweberche artistiche sviluppate nelle ex repubbliche sovietiche tra gli anni Settanta e oggi: dalla Russia alle province baltiche, caucasiche e centro-asiatiche. Il progetto originale dell’allestimento è dell’artista Can Altay. La mostra sarà accompagnata da un calendario speciale di eventi, curato da Camilla Mozzato, e un programma di cinema, curato da Luca Barni. A trent’anni dalla caduta del muro di Berlino e dalla successiva dissoluzione dell’URSS, non si può evitare la domanda su come sia cambiato il mondo in questi decenni, privato della radicale alternativa che rappresentò per Settant’anni il Paese dei Soviet. Quello che allora doveva apparire come un nuovo inizio, di fatto, di nuovo aveva ben poco nei suoi obiettivi: si trattò della negazione del cosiddetto Est (dei suoi valori) in favore di un’affermazione (espansione) dell’Ovest che, da quel momento, si sarebbe rivelato onnipresente e onnipotente. Che senso ha ritornare al Pianeta Rosso in un momento in cui le “stelle” del capitalismo sono libere di muoversi lungo le proprie orbite, senza più pressioni o attriti con corpi “alieni”?

Trent’anni sono passati anche dalla prima mostra che il Centro Pecci dedicò, tempestivamente e pionieristicamente, alla scena artistica non-ufficiale sovietica, sull’onda dellaNella primavera del 1990, Artisti Russi Contemporaneia cura di Amnon Barzel e Claudia Jolles, testimoniò l’euforia del momento e, contemporaneamente e contraddittoriamente, la nascita di un sentimento di timore verso il futuro. A questa prima mostra, il Centro Pecci ne fece seguire un’altra, altrettanto importante: Progressive Nostalgia, a cura di Viktor Misiano. Una mostra che testimoniò la disillusione dello spazio post-sovietico di fronte ai processi di transizione e integrazione in Occidente, la crisi del capitalismo finanziario, dello smantellamento dei diritti sociali e della svolta autoritaria del liberismo, rimettendo totalmente in discussione l’ottimismo iniziale e registrando lo sconforto di fronte al fallimento del presente.04-dsc02327-ph.oknostudio-perweb The Missing Planet si propone oggi come attuale e ultimo capitolo dell’ideale trilogia post-sovietica al Centro Pecci e non potrà che confrontarsi con un duplice passato: quello dell’utopia da un lato e quello della memoria dall’altro, a partire da opere delle due esposizioni precedenti. Se Artisti Russi Contemporanei  ha testimoniato la svolta mancata, con l’apertura a Est, e Progressive Nostalgia ha evocato la storia perduta, mettendo in scena una sorta di lutto o commiato, la nuova mostra propone un approccio archeologico dove fantasmi e realtà cercano di fare i conti con le “rovine del futuro”. L’intento è quello di agire sul tempo, ma anche “contro” di esso, in favore di un tempo che deve ancora accadere. Per questo, tra metafora e realtà, la mostra propone un immaginario cosmico e utopistico che ha accompagnato l’epopea dell’Unione Sovietica, trasformando lo spazio espositivo del museo in uno Space Shuttle, dentro al quale Solaris di Andrei Tarkovskij incontra Kunst camera di Sergei Volkov come pure Once in the XX Century di Deimantas Narkevicius.

Can Altay è stato incaricato di progettare l’allestimento della mostra The Missing Planet, costruendola sulla base del suo lavoro di “configurazione su configurazione” e su recenti esperimenti di allestimento. I suoi strumenti spaziali e i suoi aspetti architettonici forniscono il terreno per un incontro con gli altri lavori in mostra e, allo stesso tempo, per un’apertura dello spazio espositivo del museo. Inglobando la raccolta con le opere in mostra, l’allestimento che ha ideato per The Missing Planet compone un ecosistema, una rete fra cose, storie, posizioni artistiche e il pubblico. Sfidando le convenzioni e i protocolli dell’allestimento e del comportamento museale, il modo in cui la mostra diventa un insieme promuove una differente gerarchia rispetto all’attitudine dello spazio neutro.Can Altay è coinvolto da lungo tempo con problematiche del ‘fare mostre’. I suoi allestimenti generano comunità di cose e persone in azione, in movimento, che s’incontrano, che producono. Analogamente il suo lavoro sul ‘fare mostre’ e allestirle costruisce congegni e strumenti spaziali che mettono insieme le opere, che orientano i corpi all’incontro con quelle opere entro un panorama mentale e fisico. La commissione di Prato mette insieme queste nozioni nel contesto delle pratiche artistiche post-sovietiche e delle condizioni di comporre una mostra di collezione. Altay investiga le funzioni, i significati, l’organizzazione e la riconfigurazione dello spazio pubblico. Suoi lavori recenti coinvolgono fra l’altro le collezioni del VanAbbe Museum (Eindhoven) e di ARTER-VKV (Istanbul).

Artisti: Vahram Aghasyan; Vyacheslav Akhunov; Said Atabekov; Babi Badalov; Ilya Budraitskis – Alexandra Galkina – David Ter-Oganjan; Erik Bulatov; Alexey Buldakov; Vajiko Cachkhiani; Olga Chernysheva; Chto Delat (What is to be done?); Ulan Djaparov; Factory of Found Clothes; Andrei Filippov; Alexandra Galkina – David Ter-Oganjan; Balbar Gombosuren; Andris Grinbergs; Dmitry Gutov; Alimjan Jorobaev; Ilya Kabakov; Flo Kasearu; Gulnara Kasmalieva & Muratbek Djumaliev; Yakov Kazhdan; Anastasia Khoroshilova; Olga Kisseleva; Nikolaj Kozlov; Vladimir Kupryanov; Medical Hermeneutics; Jonas Mekas; Boris Mikhailov; Deimantas Narkevičius; Nikolay Oleynikov; Boris Orlov; Anatoly Osmolovsky; Perzi; Dmitry Prigov; Radek Community; Koka Ramishvili; R.E.P. Group; Andrei Roiter; Vladislav Shapovalov; Leonid Sokov; Andrey Tarkovsky; Leonid Tishkov; Jaan Toomik; Andrei Ujică; Nomeda & Gediminas Urbonas; Anton Vidokle; Sergei Volkov; Yelena & Viktor Vorobyev; Arseny Zhilyaev; Konstantin Zvezdochotov.

Carlo Franza

 

 

 

 

 

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