Francesco Giusti (Venezia 1952) appartiene a una generazione di poeti che segue quella dei nati negli anni Venti, come Pasolini, Loi, Pedretti e altri. La sua è una generazione che scrive tanto in dialetto che in lingua, una generazione, cioè, per la quale il movimento, quasi l’andirivieni da una lingua all’altra, è connaturato al gesto poetico. Le due lingue si nutrono l’un l’altra e vivono così intimamente l’una per l’altra, che anche quando una delle due sembra assente, essa dev’essere considerata virtualmente presente. Giusti scrive soprattutto in un inconfondibile, asintattico, rigoglioso italiano, ma c’è sempre dialetto nella sua poesia in lingua, così come c’è sempre lingua nel suo liquido dialetto veneziano. In questa ultima e più matura raccolta, il poeta, con una novità forse senza precedenti, può così invertire il movimento abituale della traduzione, che va dal dialetto alla lingua, e traduce in dialetto alcune delle sue poesie in lingua, come se la poesia non potesse più dimorare nell’identità di una sola lingua e, in una sorta di trafelato bilinguismo, si muovesse incessantemente da una lingua all’altra, quasi a significare che il suo vero luogo è nello spazio bianco che le unisce e divide. Quando le ombre si staccano dal muro (prefazione di Giorgio Agamben, saggio di Elenio Cicchini,, pp. 136, Euro 16,00),  permetterà a un pubblico più ampio di conoscere una voce originalissima nella poesia italiana tra i due secoli. Francesco Giusti, classe ’52, è un poeta che ha una lunga carriera alle spalle. Da poco è uscito il suo ultimo libro, Quando le ombre si staccano dal muro, per Quodlibet, nella collana «bilingue» Ardilut, da poco inaugurata da Giorgio Agamben e che comprende autori come Zanzotto e Pier Paolo Pasolini. Francesco Giusti (Venezia 1952) scrive poesie e disegna fin dagli inizi degli anni Ottanta. Fra i suoi libri recenti ricordiamo Accanto ai denti dell’eterno (Di Felice, 2012), De un dir apocrifo (Campanotto, 2014), E torna l’autunno (The Writer, 2016), Senza nome (Campanotto, 2017), tutti con disegni dell’autore. Ha inoltre pubblicato vari libri d’artista, a tiratura limitata. Su di lui hanno scritto Paolo Ruffilli, Giorgio Agamben, Annelisa Alleva, Tommaso Ottonieri, Franco Beltrametti, Giulia Nicolai, Pier Franco Uliana.

Francesco Giusti, classe ’52, è un poeta che ha una lunga carriera alle spalle. Da poco è uscito il suo ultimo libro, Quando le

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ombre si staccano dal muro, per Quodlibet, nella collana «bilingue» Ardilut, da poco inaugurata da Giorgio Agamben e che comprende autori come Zanzotto e Pier Paolo Pasolini.

Il libro si articola in sezioni, precedute da una poesia fuori campo, Orme, che rivela una funzione esegetica della raccolta stessa. Inizia così: “Rientrato cercherò un angolo stretto”. In un verso riassume l’intento del libro: il ritorno da una lingua a un’altra. Infatti, la raccolta è composta di poesie interamente in lingua dialettale con traduzione a fronte dello stesso autore. Agamben riporta in prefazione una citazione di Giusti: “La sfida è portare vicendevolmente la parola scritta e quella orale (visibile e invisibile) a dire quel che non è possibile all’altra: ammasso di aggettivi”, e questa dicotomia è applicabile non solo tra parola scritta e orale, ma anche tra dialetto e la lingua italiana. La lingua si muove in continuo tra queste due regioni: nella sezione Lingua con lingua, si parte dall’italiano per approdare poi alla traduzione in dialetto; invece, in Lengua co’ lengua, avviene il contrario. A reggere l’andamento non c’è nessuna azione se non la memoria, il tempo fuggito, che in Giusti si distende con l’uso per lo più di un verso lungo, che ricopre spesso tutto lo spazio dell’impossibile della pagina: questo spazio bianco non è solo una pausa di lettura, ma è attesa, è amore per il verso che diventa un verso.

“Le ombre” che compaiono nel titolo pervadono l’intera raccolta, sono simulacra, pezzi che provengono da un passato vivo ancora nella scrittura e per la scrittura: “A parecchie cose ci porta la baldanza di un fuoco”. La parola “essere” ha una ricorrenza elevata, sintomo di un presente che è possibile solo nella lingua e per la lingua; presente in cui si raccolgono i simulacra, quando Giusti scrive: “Ingoiati, digeriti,/ sputati fuori dal leviatano, siamo nell’aria non più/ bisognosi di direzione. L’idea/ della cosa anziché la cosa”. Così il poeta si pone nel luogo dell’ideale, che è lo stesso dell’impossibile, dell’irrimediabile. Lo stile, a volte, è arzigogolato, difficile per un lettore non praticante poesia. La sintassi è portata a limiti estremi come a voler rivelare, attraverso la sua scomposizione, la materia poetica. La complicazione avviene, inoltre, per l’alto numero di aggettivi, usati spesso in concatenazione, e che coagulandosi portano l’oggetto/soggetto a cui si rivolgono a una iper-presenza, perdendo malgrado in immediatezza. Tuttavia non mancano assolutamente momenti di altissima lucidità in cui la poesia si distende. La poesia di Giusti resta umile, lontana dall’uso di sentenze, o versi di chiusura a effetto e lapidari. L’atmosfera è elegiaca, sì, ma pacata e distesa come laguna. Il lirismo è interamente dedicato alla lingua, perché essa è un soggetto inteso come luogo custode di tempi: le stagioni sono l’unico leitmotiv di scansione temporale e suddividono le tempistiche dei due anni in cui le poesie sono state scritte.

Un salire con passo stanco

Quando tutto è nella luce
che in fondo alla nebbia vacilla
tutto in fondo prende
un’altra forma. Quando tutto
si fa incerto e poi crolla
tutto in nuovo paesaggio si assesta.
Rincasiamo. Facciamo
suonare la chiave nella serratura.
Nello specchio salutiamo
uno, sempre lo stesso,
sempre un altro. Così
ci affidiamo all’attualità di una luna di porcellana;
quell’altra, quella di carne, cambia faccia,
s’impiglia nelle corde della vita.

Quando Francesco Giusti pubblicò nel 2016  il suo “E torna l’autunno” (Collana i Poeti di Smerilliana diretta da Enrico D’Angelo, The Writer 2016) stupì non pochi, tra cui il sottoscritto per la sua poesia carica di umanità, sapienziale, proprio del poeta da decenni militante che vive l’esistenza di stazioni ben precise. Una raccolta calma, senza graffiature e acutezze di rabbia, senza retorica e senza nostalgie scontate.  Se nostalgia c’è, proviene da quella nebbia veneziana e avvolge e sconvolge, che lascia leggere e vedere e misurare. Una Venezia storica e carica di cultura, di prepotente cultura, è quella che affiora dai versi di Giusti, infiltrata anche nei movimenti di un angelo che si muove tra vicoli, rii e canaletti. E poi l’abbandono al racconto, alla descrizione del vivere giornaliero, come qui:  “ di amici/ andati/ libere ombre ventose e amare/dimorano qui nella sera/ tra le care cose care”. Una poetica che –osservava Tommaso Ottonieri nella prefazione al libro del 2016-  è lampo d’autunno, straniante, “lievito algoso flottante…, poesia sì stanziale ma vista con occhio profondo e infine ancora sognante, maturo e allenato a fermare attimo e gesto per renderlo generale e generalmente umano, nella vita radicato”. Versi pesanti, intensi, parole amare, lontane ormai le illusioni, perchè ormai chiaro è il cammino del poeta Giusti. Così la poesia “E torna l’autunno” che dà titolo al libro del 2016: Tra giovedì e sabato è stato/ s’è fatta povera la luce. Venerdì, / giorno di questua, ha poi mandato/ una squilla di lucore per ogni porta. Ma/ mute le case, afoni i campanelli. E/, quei due qui dietro, di là dalla rete zincata,/ le mani rimaste a bagnarsi/ in una sfolgorante luna d’avorio/ anche adesso che un raggio/ porge la sacca del frate: non sanno più/ dove hanno sentito lo stradone/ srotolarsi sul grembiule del mezzogiorno,/ alzare un reciso pudore da prefiche nerovelate,/ seduta, l’ombra incinta dei tini/ togliersi il cappello dello spaventapasseri,/ predisporre i fuggitivi al canto./”.

Ora a proposito del libro che ha per titolo “Quando le ombre si staccano dal muro” scrive nella prefazione Giorgio Agamben che è “Forse meno noto – o comunque meno nota di quanto dovrebbe esserlo – che […] questa straordinaria fioritura [della poesia italiana del ’900] è stata accompagnata da una non meno imponente fioritura della poesia che per convenzione chiamiamo dialettale”. Agamben cita Marin e Pedretti, Loi e Bandini, Pierro e Giacomini “e moltissimi altri”, tra i quali citiamo subito Giacomo Noventa. «C’è – scrive sempre Agamben – una sorta di bilinguismo […] consustanziale alla poesia italiana […] rimasta fedele a quella diglossia che Dante, nel De vulgari eloquentia, ha iscritto come un’impresa alle origini della poesia italiana: il dualismo del volgare, ‘parlar materno’ che ‘solo e prima è nella mente’ e che si riceve sine omni regula dalla nutrice, e della lingua grammaticale che si apprende invece attraverso lo studio (ai suoi tempi, questa lingua-grammatica, inalterabilis locutionis idemptitas in tempi e luoghi diversi, era il latino»). Come scrive Andrea Zanzotto a proposito di Filò, il dialetto “ha in sé una goccia del latte di Eva”, è “il fatto linguistico nella sua sorgività”. La raccolta nuova di Francesco Giusti “Quando le ombre si staccano dal muro presenta “una novità senza precedenti”, afferma Agamben: «Giusti, nelle dieci poesie che aprono il libro, inverte la direzione consueta, che va dall’originale in volgare all’italiano, e ‘traduce’ in dialetto le sue poesie scritte in italiano. Il percorso abituale, dal dialetto alla lingua, riappare nelle dieci poesie che chiudono il libro”. Il nuovo volumetto di poesie presenta una quarantina di testi in italiano nella parte centrale, senza dimenticare che si lega  a “E torna l’autunno” sul versante della poesia come sperimentalità lingua/dialetto e come atmosfera veneto-lagunare, autunnale, invernale; mentre si lega  a Senza nome. Pensieri nello spazio del cuore sul filo di un rigore più intimo e interno, anche antropologico e religioso.  Basti pensare che “In Quando le ombre si staccano dal muro”, il Vangelo, la Madonna, Sant’Orsola, il Risorto, l’Eterno, la «scialuppa degli apostoli», appaiono come immagini di presagio e di futuro di una “sacralità del dire” che abbiamo già visto in un altro veneto come Ferdinando Camon nel suo “Un altare per la madre”.  Nei versi del Giusti un silenzio inaudito, un fare da anacoreta che si nutre di solitudine, un pensiero acuto e forte, un respiro fin troppo umano, un dosaggio della vita senza precedenti e una lingua dialettale  che coglie  persino la fioritura dei roseti a gennaio: “Varda – allarmato le ho detto – el roser xe za pien de semi”. “Ti ze pezo dei putei – lei mi ha risposto – te par ste qua robe da vegnirne a dir”, quasi le si stesse lì per lì rubando il tempo. La parola ora è scrittura e parusia, si meraviglia, esclama, interloquisce, lascia esplorare come Montale “La curvatura del giunco all’alzarsi del vento”, “l’archetipo nel coccio. E infino riporto questi versi del Giusti che leggo a pag. 63: “ S’è spogliato l’albero con cui parlo/per terra una camicia di foglie morte uno/gliela lava. Ma ci sarà chi un’altra/gliene regalerà per un di’ di primavera, ci sarà? Non osa/il vento scavalcato il muricciolo spostargliela, / benché discolo ha delle remore,/troppo fresco è il dolore, il simbolo/che a spoliazione compiuta nell’aria/di nobile rinuncia resta./Vestito di nuda costrizione vero/è l’albero, groppose dita/ negli scomparsi voli, immote. Adorno/ di regale nudità senza far lezione insegna/ a me che alla finestra vivo come/ su di un duro banco scolaro a scuola”. Eccolo il poeta italiano, il poeta veneto, il Francesco Giusti che oggi ha raggiunto una sua maturità poetica, un traguardo inappuntabile.

Carlo Franza   

 

 

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