L’esposizione (visitabile fino all’11 ottobre 2020) è dedicata a Jean Corty, uno dei più apprezzati pittori svizzeri; la si può vedere alla Pinacoterca Cantonale Zunst di Rancate-Mendrisio (Svizzera). La sua parabola artistica, consumatasi nell’arco di soli vent’anni, rivela la fascinazione per l’Espressionismo nordico subita durante gli anni della formazione a Bruxelles. Il padre Francesco Corti era emigrato, come tanti ticinesi, spostandosi da Agno a Cernier (Canton Neuchâtel) per lavorare nelle cave; qui si era sposato e aveva dato vita a una dozzina di figli, tra cui il nostro Jean-Baptiste (che solo a partire dal 1940 modifica la finale del cognome trasformandolo in Corty). Quando si presentano non meglio precisati disturbi nervosi, l’artista viene trasferito nel Cantone di origine. In mostra sono presentate unicamente le numerose opere – paesaggi e figure – da lui dipinte durante i ricoveri presso quello che all’epoca era denominato Manicomio di Mendrisio, dal 23 agosto 1933 al 4 maggio 1934 e di nuovo dal 23 agosto 1937 al 2 agosto 1941, e donate dal pittore stesso al suo dottore Olindo Bernasconi (1892-1941), i cui discendenti le conservano ancora. La provenienza certa fa sì che la collezione apporti un contributo importante all’annosa questione attributiva tutt’ora aperta fungendo da sicura pietra di paragone per le opere sul mercato. A Mendrisio (Casvegno) il nostro dipinge e disegna con continuità, grazie all’interessamento del dottor Bernasconi che, credendo fermamente nei benefici che il lavoro e l’arte potevano apportare ai malati, gli assegna anche uno spazio per stabilire il proprio atelier. Corty, noto ai contemporanei per la vita bohemiénne, condotta tra povertà ed eccessi, ci lascia una pittura densamente autobiografica. Non sorprende quindi riconoscere in molte delle opere realizzate a Mendrisio scorci dei dintorni, dal momento che gli era consentito non solo di muoversi liberamente all’interno del grande parco della struttura, ma anche di recarsi nei paraggi, spesso accompagnato dall’amico pittore Libero Monetti. Sfilano così vie e monumenti del centro del Magnifico Borgo, ma anche della campagna e di vari paesi limitrofi. Spesso si tratta di istantanee di vita che fissano la quotidianità dell’istituto e dei suoi abitanti ma non solo: le attività, i momenti di svago e riposo, davanti a un bicchiere di vino, giocando alle carte o fumando la pipa. Lecito supporre che i lavoratori nei campi siano proprio i ricoverati che si applicavano alle attività di ergoterapia. Il dottor Olindo Bernasconi è stato una figura di riferimento non solo per il giovane pittore. Personaggio poliedrico, è stato politico e filantropo; dotato di vasta cultura, scrive racconti, tiene conferenze mediche in tutti i distretti del Cantone e cura una rubrica di medicina a cadenza regolare per la Radio della Svizzera italiana. Precocemente scomparso a soli 48 anni nel 1941, instaura con il suo oggi illustre paziente, ma allora sconosciuto, un rapporto intenso, nella convinzione che attraverso il lavoro artistico Corty avrebbe potuto alleviare e in parte curare le sue turbe mentali. Al pittore commissiona anche le vignette che illustrano il giornale di Carnevale del Magnifico Borgo.

Nel catalogo che accompagna la mostra sono riprodotte tutte le opere esposte (un centinaio, tra olii, acquerelli e disegni), in gran parte inedite, e viene ripercorsa la storia dell’Organizzazione Sociopsichiatrica Cantonale di Mendrisio, sia dal punto di vista architettonico che delle cure lì praticate in quegli anni, con un cenno agli altri artisti che vi trascorsero periodi più o meno lunghi. Occorre citare in primo luogo Filippo Franzoni (1857-1911), tra i più celebri, morto a Mendrisio, ma va anche ricordato Gualtiero Colombo (1900-1960), originalissimo e sconosciutissimo pittore luganese ma anche scrittore, di cui restano una manciata di interessanti opere, tutte da recuperare. V’è da chiedersi se anch’essi trovarono negli spazi dell’Istituto ospedaliero una situazione simile a quella che Corty sperimentò grazie al sodalizio con il dottor Bernasconi.

Approfondimenti. 1. L’Istituto psichiatrico di Mendrisio. Prima dell’apertura nel 1898 del Manicomio cantonale, nel Ticino non esistevano strutture preposte al trattamento degli infermi di mente, che dovevano quindi subire l’ulteriore disagio di doversi recare lontano da casa per ricevere cure adeguate. Erano stati così stipulati accordi con vari istituti del Nord Italia: Milano, Torino e soprattutto Como, dove centinaia di malati ticinesi vengono ricoverati al San Martino. Dopo decenni di dibattiti ed incertezze, il lascito da parte di Agostino Maspoli della masseria di Casvegno, con i terreni annessi, all’Ospedale della Beata Vergine di Mendrisio consente, nel 1870, di dare una svolta decisiva al progetto. Una Commissione è incaricata così di visitare e studiare gli istituti più all’avanguardia presenti in Italia (Reggio Emilia, Imola), giungendo infine alla decisione di adottare la struttura a villaggio per il Manicomio di Mendrisio, espressione delle tendenze in quel momento più moderne. La scelta del sito, in campagna, dà ai ricoverati la possibilità di godere di un ambiente vicino alla natura, rilassante e rigenerante; i vari padiglioni consentono una suddivisione dei malati a seconda delle diverse patologie; i metodi no-restraint, abbracciati a Mendrisio da Paolo Amaldi (1865-1956), direttore dal 1898 al 1906, si basano sulla rinuncia alla coercizione. La scoperta degli psicofarmaci, negli anni Cinquanta, rappresenta una rivoluzione: essi forniscono un nuovo efficace mezzo per affrontare la malattia, ponendo tuttavia anche una serie inedita di problematiche non essendo privi di effetti collaterali e controindicazioni. Prima di questo momento era diffuso l’utilizzo di terapie a base di bagni prolungati, ma anche di trattamenti al limite della tortura. Negli anni Trenta vengono introdotti l’insulinoterapia e l’elettroshock. A Mendrisio, come in tutti gli istituti più all’avanguardia dell’epoca, accanto a queste cure ha grande spazio la terapia occupazionale. L’ergoterapia tiene vive le attitudini sociali, il contatto con la realtà, dà ai pazienti la possibilità di sentirsi parte attiva di una comunità e, non da ultimo, permette di migliorare le possibilità di un reinserimento nella vita quotidiana dopo le dimissioni. Gran parte delle attività sono di tipo agricolo, ma presto vengono anche istituiti laboratori di altro genere (falegnameria, fabbricazione di tappeti di cuoio, produzione di gazzose, solo per fare degli esempi). Un’altissima percentuale di ricoverati lavora a Mendrisio e il Manicomio diventa così praticamente autosufficiente, producendo eccedenze che vengono vendute, con ricadute positive anche sui dintorni dal momento che offre posti di lavoro agli abitanti del circondario. Si batte addirittura moneta: i “marchitt”, soldi in alluminio validi solo all’interno dell’Istituto. A coloro che presentavano attitudini artistiche era consentito di coltivarle, decorando anche i padiglioni. A questo proposito occorre tuttavia distinguere nettamente tra l’attività creativa praticata da degenti, con funzioni di arteterapia – e che portano al concetto di Art Brut, prodotta spontaneamente da autodidatti privi di qualunque formazione –, e quella condotta da ricoverati che sono invece prima di tutto artisti, come nel caso di Jean Corty, che svolge la propria formazione in Accademia ed esprime riferimenti colti nei propri lavori. 2. La Vis nostalgica di Corty. Quella di Corty è una figura culturalmente profilata, formatasi su modelli specifici, le cui radici sono da ricercare nella grande tradizione pittorica fiamminga sull’arco di oltre quattro secoli, dai primi del Cinquecento fino al Novecento, una tradizione a cui si era avvicinato già da giovane, ancor prima di frequentare l’Académie Saint-Luc di Bruxelles, tra il 1930 e il 1932.Questo sguardo rivolto a Nord lo avrebbe accompagnato attraverso tutta la sua breve parabola artistica, connotandola con un persistente sapore nostalgico. Vi rimase sempre fedele, considerandolo un vero e proprio nutrimento dell’animo. Gli anni di Mendrisio non furono una pausa buia nell’evoluzione artistica del pittore. Si ha anzi l’impressione che il soggiorno a Casvegno permise a Corty, bene o male, di trovare finalmente una casa, ovvero quel minimo di tranquillità per sviluppare e consolidare la sua maniera, come del resto dimostrano le opere della collezione: vi sono i solidi e luminosi paesaggi della regione, i borghi e villaggi del Mendrisiotto (concentrati e simbolici ma, a tratti, anche riconoscibili), i cupi grumi di uomini e le donne piegate dal lavoro e dalla vita quotidiana, le opere di arte sacra (memorabili i grandi disegni con la Crocefissione). È l’arte di Corty che nella collezione Bernasconi si presenta senza inquinamenti, nella sua autenticità e verità tecnica e materiale. In seguito alla morte prematura del dottor Olindo Bernasconi (22 febbraio 1941), Corty viene dimesso definitivamente, con la giustificazione di uno stato di salute che pare essersi ristabilito. A Lugano, il pittore conduce una vita sregolata: “Jean è, e rimarrà sempre, un fumatore arrabbiato. Praticamente non mangia, dorme pochissimo, ma fuma, fuma ininterrottamente” (Pietro Salati). Giuseppe Martinola ricorda che “il Ticino i suoi ‘bohémiens’ se li conta su di una mano, e il Corty fu un bohémien autentico […]. Elegantissimo anche con gli abiti sgualciti, assicura il suo biografo [Pietro Salati, ndr], portava sempre guanti e ghette; e quindi non sorprende che si trascinasse nei caffè diurni e notturni, confidando nell’alcole con tutti gli effetti scontati su un fisico forse già predisposto. Così lo ricordano i luganesi di una generazione fa, qualcuno lo ricorderà ancora a Mendrisio: dove, nelle pause della cura, batteva le campagne e conobbe la sua stagione pittorica più intensa”. Quella di Corty è una storia di esclusione, come se la costante della sua vita fosse il non essere accettato da chi gli stava attorno. Non è tuttavia solo: pochi, ma fidati amici, tra cui si ricordano Libero Monetti, Vinicio Salati, Basilio Biucchi, Charlotte Brönnimann, Luigi Ferrario, lo sostengono e gli stanno vicini. Il regista e scrittore Vittorio Ottino gli dedica le intense poesie, raccolte in un libretto con prefazione di Italo Alighiero Chiusano, che scandiscono il percorso della mostra. La sua parabola si chiuderà, come per un segno del destino, a Mendrisio. Colto da una congestione, verrà traportato da Lugano al Casvegno, dove si spegnerà il 22 aprile 1946 dopo una breve agonia.

Carlo Franza

 

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