Il "Grande Fratello" di Orwell, esempio di neolingua

Il “Grande Fratello” di Orwell, esempio di neolingua. In cui le parole significano il contrario di ciò che proclamano.

Ben prima che arrivasse il politicamente corretto con le sue fantasiose ipocrisie si parlava di metalinguaggio. Delle parole, cioè, con cui imbellettiamo la dura realtà; come una ottantenne che vuole sembrare una ventenne a forza di cipria, rossetto e fard. Rimane, però, un retrogusto sgradevole. Insomma, ci sentiamo presi in giro. Oppure di neolingua: la lingua artificiale e di regime immaginata da George Orwell nel suo capolavoro 1984, che dice l’esatto contrario della verità. Per cui il Ministero della Verità si occupava di occultarla, il Ministero della Pace di fare la guerra, il Ministero dell’Amore di sopprimere il dissenso..
Da ragazzi, quando ci chiedevano se una ragazza era carina e non volevamo essere offensivi, rispondevamo che era simpatica. Cioè un ciospo. E quando la ragazza ci diceva che le serviva una pausa di riflessione capivamo che la storia era bell’e finita. Se, invece, ci spiegava che ci teneva tanto alla nostra preziosissima amicizia, capivamo che non c’era trippa per gatti. E ci tornava alla mente la canzone di Max Pezzali “La regola dell’amico”: “La regola dell’amico non sbaglia mai / Se sei amico di una donna non ci combinerai mai niente, mai / Non vorrai rovinare un così bel rapporto”.
Oggi, da adulti, sappiamo che se ci dicono che qualcuno ha un carattere forte significa che è un arrogante. Un prepotente. Un dittatore. E se diciamo che è un tipo, vuol dire che è perlomeno bizzarro. Se non mezzo matto.
La politica – a parte lodevolissime eccezioni – è il regno dell’ipocrisia: si dice il contrario di quello che si fa. Tutti parlano di ridurre le tasse, ma quasi nessuno lo fa sul serio. Anzi, semmai aumentano… Tutti assicurano di voler sfoltire la foresta burocratica, ma nessuno l’ha mai fatto davvero. Tutti si dicono servitori del popolo sovrano, ma torna in mente la retorica dei regimi comunisti: tutti, da quelli defunti dell’Est Europa a quelli ancora vivi della Corea del Nord, della Cina e di Cuba, si dicono democratici e popolari. Democratici: quindi uno vale uno. E popolari: quindi il popolo decide. Anche se sappiamo benissimo che l’unico uno che conta è il capopartito. Chi fa parte della sua cricca conta qualcosina,  mentre tutti gli altri contano zero. E il popolo serve solo per applaudire, in piazza, chi sale sul palco dichiarando di fare tutto per lui.
Per questo quando sento un politico che si riempie la bocca di parole come popolo, democrazia, sovranità sento puzza di bruciato. Preferirei uno che dicesse la verità: “Votatemi perché non so fare nulla nella vita e riesco a campare solo se mi votate e occupo uno scranno ben remunerato”; oppure “Votatemi perché voglio prendere il potere per fare i miei porci comodi, e magari per appagare il mio ego e finire sui telegiornali”. Ma se un politico dicesse tutta la verità, quanti voti prenderebbe? Zero!
“Vulgus vult decipi, ergo decipiatur”: il popolo vuole essere ingannato, pertanto inganniamolo, sosteneva 500 anni fa il Cardinale Carlo Carafa. Se il mondo girava così allora, figuriamoci oggi, all’epoca dei deep fake.  Mia madre mi ha mostrato, esterrefatta, un video in cui Berlusconi dichiara che bisogna bombardare a tappeto l’Africa con ordigni atomici per risolvere il problema dell’emigrazione degli africani verso l’Europa. “Mamma, guarda che Berlusconi ha detto ben altro, e quella è una bufala creata al computer!” le ho assicurato. “Ma no, è proprio lui, con il suo viso e la sua voce! Non posso non credere ai miei occhi e alle mie orecchie!” ha ribattuto, indispettita. E non c’è stato verso di farle cambiare idea.

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