Bruno Gulotta è morto sulla Rambla di Barcellona, travolto da un furgone impazzito e guidato da un terrorista islamico invasato e sorridente, killer di un’intera folla di persone normali, perbene, sconosciute. Persone come lui, Bruno, trentacinquenne di Legnano, manager brillante di un’azienda informatica, dedito con passione al suo lavoro e alla sua splendida famiglia. Moglie e figli, due bambini. Erano tutti con lui, in quel momento, e lo hanno visto morire sulla strada più nota e viva di una città turistica, solare, aperta e moderna. I bambini e la mamma per pochi centimetri ce l’hanno fatta: sono scampati alla follia degli assassini, salvati dal papà o forse dalla mamma, che teneva nel marsupio la piccola, neanche un anno, e ha tirato a sé il più grande, 5 anni, sottraendolo con forza e rabbia a un destino che sembrava segnato, mentre Bruno faceva loro da scudo. Ma quante sono le vite spezzate per una manciata di centimetri, o al contrario quelle salvate dal caso, da un dettaglio, da un telefono squillato, da un caffè più lungo del previsto, da un contrattempo, o forse, chissà, dalla mano di un angelo.

Del suo angelo parla Cinzia, che nell’amata Barcellona si trovava in vacanza, e ieri passato l’incubo ha guardato la città dal Montjuic, in silenzio, dall’alto della collina dove è salita per “ammirare e abbracciare tutta Barcelona, senza inutili cortei”. Il giorno prima ha visto il terrore passarle vicino: “Ho ancora il cuore in gola e le lacrime – ha detto scritto poco dopo l’attentato – Ho provato sulla mia pelle quello che vogliono queste bestie schifose. Farti sentire un animale in fuga senza sapere da cosa da chi e come salvarti. Vogliono farti sentire come un topo in gabbia, che non sa cosa succede e come finirà, e specialmente senza sapere perché. Bestie schifose. Non riesco a scrivere altro, per ora. Siamo salvi in albergo e piango per chi non ha avuto la mia fortuna”. Anche Cinzia, altra mamma, ha un angelo a cui pensare. “Grazie Fede angelo mio” ha detto, rivolgendo il pensiero al figlio. Proprio come Caterina, che a Barcellona lavora da anni. E nella sua Barcellona aspetta il suo bambino ormai in arrivo. Un bambino già vivace, “ribelle” dice lei con l’affettuoso tono di rimprovero della madre che è già, bella e raggiante. “No tinc por” può scandire oggi insieme a un’intera nazione, dal re al sindaco al più anonimo dei suoi concittadini: io non ho paura. Ma ieri – confessa – ha conosciuto il terrore.  “Come ogni mattina – ha raccontato – ho salutato Fabio e sono andata a lavorare e, come quasi ogni giorno, sarei andata alle 17 in plaza Catalunya ad aspettarlo, quando finisce di lavorare. Oggi la mia pancia era più ribelle del solito e ho deciso di non andare. Stamattina – ha scritto nel giorno più lungo e terribile di Barcellona – non sapevo che non ci saremmo rivisti fino a tarda notte. Stamattina non sapevo che il mio bimbo, forse, ci ha protetto. Stamattina, forse, non conoscevo ancora il terrore“. “Barcellona mia, piango con te e con il dolore che emani questa notte” ha scritto Caterina, in quella che sembra una preghiera. Rivolta alla sua nuova città e al suo piccolo ribelle che in qualche modo l’ha salvata. E alla vita. La vita che celebra anche Cinzia, dall’alto del Montjuic, e la vita che sicuramente celebreranno anche i figli piccoli di Bruno, quando saranno grandi, quando sapranno, quando leggeranno e quando penseranno al loro papà.

algia

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