Sul Giornale di sabato, Paolo Guzzanti ha tracciato da par suo il quadro della Palestina di seconda metà di Ottocento, citando due grandi scrittori.

“Due scrittori – ha scritto – che non si conobbero mai, l’americano Mark Twain e l’italiano Edmondo De Amicis (l’autore del libro Cuore)”. Visitarono la Palestina – ha spiegato Guzzanti – e riferirono quel che avevano visto: una sassaia sterminata e disabitata, con pochi pastori, casematte militari turche che marcavano il territorio di una landa divisa in wilayat (provincie) con minuscole guarnigioni militari, pecore e capre, una terra in cui non viveva né poteva vivere alcun popolo”.

Quel che scrisse Mark Twain della Palestina, lo ricorda oggi il sito (filoisraeliano) Linformale:

“Una terra desolata – la descrisse così – fertile abbastanza ma lasciata interamente in balia ad erbacce in un’espansione addolorata e silenziosa… Qui c’è una desolazione che nemmeno l’immaginazione può migliorare con lo sfarzo della vita e dell’azione… Non abbiamo mai visto una persona durante tutto il nostro cammino… Difficile fu vedere un albero o un cespuglio. Persino gli ulivi e i cactus, amici dei terreni più aridi, erano rari in quel paese”.

Tornando a Guzzanti, con la sua penna tocca magistralmente un nervo scoperto, che spesso resta sottaciuto per ragioni di correttezza politica e cautela “diplomatica”. L’esistenza o meno, prima della Seconda metà del Novecento, di un popolo palestinese definito e riconosciuto come tale. Molti infatti, da parte filoisraeliana, mettono l’accento sulla difficoltà di delineare la traccia di un’identità palestinese, un’identità contrassegnata da sentimenti nazionali e da una cultura o letteratura nazionale distinta da quella arabo-musulmana in generale. E Guzzanti ha completato così il suo quadro storico.

“A Gerusalemme – ha concluso – vivevano ancora molte migliaia di ebrei che non avevano mai abbandonato la loro città che avevano difeso insieme ai musulmani dagli attacchi dei crociati cristiani. I palestinesi come popolo non esistevano”.

Questo problema storico che ruota intorno alla parola “palestinese” rimanda ad alcuni frammenti di storia di cui si trova traccia anche a Milano. In una delle sinagoghe cittadine, per esempio, quella di corso Lodi, è possibile visionare i documenti rilasciati dalle autorità britanniche che governavano il mandato palestinese nell’immediato dopoguerra (lo fecero dal 1920 e il 1948, dopo la sconfitta dell’Impero ottomano nella Grande guerra). In questi documenti, che furono utilizzati dagli interessati per tornare in Terra d’Israele subito dopo la guerra e la tragedia della Shoah, la moglie di un soldato appartenente alla Brigata ebraica viene qualificata come moglie di “soldato palestinese”, e questo – rimarchiamolo – nonostante egli fosse chiaramente ebreo. La stessa Brigata ebraica viene da molti ancora chiamata Brigata palestinese. Questo non significa ovviamente che non esistesse una certa presenza arabo-musulmana in quella che è sempre stata chiamata Palestina e questo non significa  certamente che non esista oggi il problema di garantire ai palestinesi, così come si sono andati rappresentando e come sono riconosciuti nel mondo, i diritti, la dignità e – se possibile – anche la legittima costruzione di uno Stato, se questa è la loro legittima aspirazione democraticamente espressa. Tutto questo, tutto ciò che da Twain a corso Lodi possiamo dedurre, significa invece, ovviamente, che non si può negare una presenza ebraica in terra d’Israele, dal momento che è attestata in ogni modo e in ogni tempo, dalla Bibbia in poi. E significa che è doveroso contestare le bufale che circolano grazie all’ignoranza e alla disinformazione, comprese quelle avallate dall’Unesco.

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