«Era un nostro bambino, un bambino italiano». Parole del discorso di insediamento di Sergio Mattarella al Quirinale. Era solo un bambino Stefano Gaj Taché, e il 9 ottobre 1982 fu ucciso solo perché ebreo. Sono passati 37 anni esatti. Anche in quel caso gli ebrei furono colpiti in un giorno di preghiera, in quel caso da un commando palestinese. Trentanove anni prima, in un altro giorno di ottobre, nel 1943 a Roma, oltre mille ebrei erano stati rastrellati e molti morirono nei campi di sterminio. Da allora, molti ebrei considerano «non farti uccidere» l’undicesimo comandamento, e questa è la storia recente di Israele e della sua forza, che l’Europa, l’Onu e la sinistra mondiale considerano di per sé una colpa, non comprendendo come la forza del giusto sia una benedizione.
Non farti uccidere, dunque. Lo sanno i loro odiatori, siano essi estremisti arabi, nazisti o fanatici islamisti. E anche per questo li colpiscono quando sono vulnerabili: quando pregano. Questa la storia della «guerra del Kippur», scatenata improvvisamente nel 1973 dai Paesi arabi. Anche ieri era Kippur, anche ad Halle, in Sassonia. Nell’82 era shabbat, il sabato, ma a Roma era anche il bar mitzvah di un gran numero di giovani che passavano alla maggiorità religiosa. Ed era Shemini Atzeret. Festa. Nel tempio c’erano centinaia di persone, molti bambini. Tra questi Stefano, e il fratello maggiore Gady, che fu ferito come 40 altre persone.
stefano
Non avevano alcuna «colpa» ovviamente, se non quella di trovarsi lì davanti alla sinagoga di Roma, in quel 1982 che fu anche l’apice di una campagna di demonizzazione contro gli ebrei italiani, delirante strascico ideologico dopo i controversi fatti di Sabra e Shatila che avevano coinvolto Israele, intenzionata difendersi appunto e furono indebitamente addebitati all’intero ebraismo, tanto che il 25 giugno, nel corso di una manifestazione con slogan antisemiti, dei sindacalisti scaraventarono una bara davanti alla sinagoga. E lì, alla sinagoga inspiegabilmente sguarnita nonostante gli allarmi, pochi mesi dopo quel commando arrivò scaricando mitra e lanciando granate. In pochi attimi fu l’inferno: l’Italia, e la comunità ebraica italiana, subirono quello che è stato il più grave attentato antisemita della nostra storia. Il presidente del Consiglio di allora, Giovanni Spadolini, si precipitò al «ghetto» da amico degli ebrei. Era stato l’unico, un mese prima, a rifiutarsi di ricevere Yasser Arafat, l’ambiguo leader palestinese che era stato accolto in Italia con tutti gli onori, anche dal Quirinale. Tale la tensione che il rabbino capo Elio Toaff, massima autorità morale dell’ebraismo italiano, alla vigilia della cerimonia disse al presidente Sandro Pertini che non avrebbe potuto garantire la sua incolumità ai funerali di Stefano. Due partigiani, il rabbino capo e il presidente, discutevano da pari a pari sulle responsabilità istituzionali di quel dramma. Il giorno prima delle esequie, il grande architetto Bruno Zevi, azionista e radicale, pronunciò in Campidoglio un durissimo atto d’accusa contro il suo Paese, l’Italia. Quella ferita del 1982 fu rimarginata lentamente, anche con la visita in sinagoga di Giovanni Paolo II, che chiamò gli ebrei “i nostri fratelli maggiori”.
Dal 2007 il largo davanti al tempio porta il nome di Stefano Gaj Taché. Il fratello, Gady, nel 2017 ha scritto queste parole: «A quest’ora 35 anni fa ero ancora un ragazzino felice, non sapevo cosa sarebbe successo l’indomani. Fino a qualche anno fa ho partecipato da spettatore a tutte le commemorazioni. E ogni volta tornavo a casa deluso dal fatto di non aver avuto la forza di parlare in pubblico per gridare al mondo la mia rabbia. Così tornavo a casa e sfogavo le mie emozioni suonando la chitarra. Fu in una di queste occasioni che a 17 anni scrissi una canzone». La canzone si intitola «Little Angel».
Tag: , , , , , , , ,