Giulio Sapelli è un personaggio poliedrico, è studioso di economia, storia, filosofia, sociologia e cultura umanista e, come dice nel suo sito internet, unisce tutte queste discipline in una “sintesi originale e profonda”. Un anno fa poteva diventare il Primo Ministro del governo gialloverde al posto di Giuseppe Conte, ma lui si schermisce e dice che non vuole e non voleva stare al posto dell’Avvocato del Popolo.

Oggi con lei parleremo della questione libica e della nostra adesione alla Belt and Road Initiative. Partiamo dalla questione libica. Ho avuto l’opportunità di leggere un’intervista che lei ha fatto con Francesco Bechis su Formiche riguardo la Libia. Lei dice che l’Italia è uno Stato invertebrato. Spieghi perchè.

Si potrebbe dire che si sta divertebrando, cioè sta perdendo il suo punto di riferimento essenziale che, come dice bene, è sempre la politica estera. L’Italia è uno Stato di tardiva unificazione, che può quindi pensare ad avere una sua egemonia regionale nel Mediterraneo. Ovviamente per far questo uno Stato deve saper identificare quale è il suo interesse prevalente e seguirlo fino in fondo. Noi da una ventina d’anni sbandiamo pericolosamente soprattutto perché abbiamo una classe politica che non capisce più quale sia l’interesse prevalente. Questo interesse però continua a essere identificato da quella che è la tecno-struttura risorgimentale: la nostra diplomazia di carriera, i nostri servizi segreti e le nostre forze armate, che sono tra le migliori al mondo – per quanto riguarda soprattutto le operazioni di peace keeping.

Questa debolezza, quindi,  va aldilà della classe politica che è al governo, sia essa di destra, sinistra o centro, ma che secondo lei è una debolezza insita.

E’ una debolezza organica che comincia sostanzialmente dall’inizio degli anni novanta quando i grandi partiti di massa sono stati distrutti da un’offensiva di tipo pretoriano-giudiziaria. Bisognava inserire l’Italia in modo subalterno nella globalizzazione delle privatizzazioni mondiali. Per far questo bisognava distruggere gli storici partiti di massa e questo è riuscito, ahimè. Naturalmente il nostro interesse prevalente– e non abbiamo più una classe politica che ci guida verso questo scopo – è da un lato mantenere un rapporto organico con gli Stati Uniti, quale che sia il presidente. Siamo una piattaforma nel Mediterraneo, abbiamo le basi NATO e abbiamo una proiezione verso il Nord Africa e verso i Balcani. Il punto di crisi, come lei evocava prima, adesso è la Libia. Dopo l’intervento anglo-francese che ha distrutto il regime di Gheddafi, l’unico che poteva unificare attorno alla sua tribù le altre tribù, ora in Libia c’è un pericoloso vuoto di potere. L’Egitto preme naturalmente per impossesarsi della Cirenaica come fa da sempre…

Posso farle una domanda che è un po’ una provocazione? Un anno fa si parlava di una coalizione 5 Stelle – Lega in cui lei fosse il Primo Ministro. Dopo che Trump ha tirato la volata ad Haftar e dopo che Conte si è un po’ barcamenato dicendosi amico del popolo libico ed equidistante da Serraj e Haftar, se lei fosse stato al posto di Conte, che cosa avrebbe fatto?

Io non sono e non volevo stare al posto di Conte. La politica ha i suoi segreti e deve rimanere un arcana imperii. Naturalmente io non sono andato al posto di Conte ed è un bene che io non ci sia andato. Non avrei sicuramente sopportato le oscillazioni di uno dei componenti del governo. Fatto sta che anche quello che lei dice sulla Libia è impreciso. Innanzittutto, io avrei conosciuto meglio del professore e avvocato Conte quali sono le forze in campo. Haftar è un grande bluff. Haftar è quello che nell’88/’89, quando Gheddafi aveva perso la possibilità di creare un’unità panaraba che andava dall’Egitto alla Siria, si scatenava in avventure coloniali in Chad. Bene, nonostante disponesse dei Mig russi devastanti e migliaia di forze armate, fu massacrato dai chadiani che lo attaccavano su delle Toyota armate con dei piccoli cannoncini. Poi Haftar è stato preso dagli americani che l’han salvato dal rischio di essere incarcerato dai chadiani. Gli americani se lo sono tenuti una ventina d’anni e ora l’han dato agli egiziani per provare a rifarsi. Il generale Haftar porta l’uniforme ma non sa fare la guerra. Il problema è che in Libia bisogna parlare con tutti e negoziare con tutti. Pensate a quello che fece Berlusconi, quando invitò Gheddafi e tutti si stupirono sul come mai il Cav baciò la mano a un vecchietto che scendeva dalla scala. Quel vecchietto era il figlio del Leone del deserto, il capo della resistenza anticoloniale libica che il generale Graziani impiccò davanti a migliaia di libici. Poi non c’è più nessuno. Chi poteva tenere assieme le tribù? Gheddafi. Quindi bisogna ripensare a un ritorno allo status quo pre-2011. Si parla molto della possibilità di rimettere in gioco il figlio di Gheddafi, perché c’è bisogno di un capo carismatico che unifichi le tribù. Poi c’è bisogno smetterla con questa filastrocca delle elezioni perché è veramente vergognoso. In Libia si rischia la somalizzazione e questi sprovveduti continuano questa cosa di “diritti umani, elezioni libere”. Bisogna stabilizzare e stabilizzare vuol dire lavorare coi poteri esistenti che sono poteri tribali. Non si possono fare delle dichiarazioni come quelle fatte dal primo ministro in modo così leggero e superficiale, ecco.

Andiamo invece all’argomento Cina e Belt and Road Initiative. A me ha stupito non tanto l’accordo di per sé, perché alla fine, il commercio fa bene, più ci apriamo verso l’oriente meglio è. Il punto però è politico. A me ha stupito come ci siano state due voci differenti tra Roma e Pechino. Mentre Pechino ancora oggi, se si legge il South China Morning Post di Hong Kong, vede l’Italia come unico paese del G7 che ha fatto questo accordo strategico, a Roma continuamo a dire che l’accordo è puramente commerciale. Come la vede lei?

Io la vedo come l’ho sempre detta su questo punto. In Italia è in attivo da trent’anni un partito filocinese formidabile che ha il suo esponente principale Romano Prodi. Inoltre, i cinesi sono forti sopratutto nella comunità accademica. Ospitano da una ventina d’anni tutti i nostri economisti, tutti i nostri studiosi e ministri. Naturalmente questa visione ha le gambe corte perché la via della seta inizia a franare già nei paesi del sud est asiatico dove tutti si stanno ritirando, in Africa non ne parliamo: ci sono degli scritti di David Pilling sul Financial Times molto belli che definisce la Cina un imperialismo a debito. Gli italiani sono gli unici che hanno fatto questa cosa gravissima che è un accordo politico. Basta pensare al peso che abbiamo dato a Huawei e al fatto che inizi a distruggere attraverso una concorrenza terribile e unfair le nostre telecomunicazioni. Ma questo è il frutto di trent’anni di soft power cinese in Italia. La borghesia vendidora – come la chiamo io – italiana ha una classe politica molto evidente che lavora molto bene. Questo governo ha un’impressionante rappresentanza di quella borghesia vendidora anche in settori non sospettabili e che non è il caso di evocare qui.

E l’America?

L’America è indignata e giustamente. Perchè gli americani sono i nostri più grandi alleati. Sanno che la stabilità italiana è importante perchè col pericolo della somalizzazione della Libia, col franamento del fronte sud della NATO e con la Turchia che non si sa bene cosa voglia fare, lei si rende benissimo conto che l’arrivo di due portaeree americane davanti alla Libia serve per dare un senso di stabilità nell’area mediterranea e lasciare meno peso alla Russia. L’interesse dell’Italia con gli Stati Uniti è di non scontrarsi per la questione cinese. Il paese, se continua su questi passi, andrà incontro ad una catastrofe diplomatica.

 

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