Quando si parla di politica e di difesa, Guido Crosetto è la persona a cui rivolgersi. Già Ministro della Difesa, ha rinunciato ad un posto in Parlamento per guidare l’AIAD, la federazione delle aziende italiane per l’aerospazio, difesa e la sicurezza.

Quando la politica non sa più tagliare per raccattare qualche risorsa, solitamente il bersaglio più facile è quello della difesa, poiché è facile farlo digerire all’opinione pubblica. La difesa però non è solo guerra, non sono solo missioni ma è anche industria ad altissimo valore aggiunto, il cui spicco tecnologico fa partire spesso industrie nel Cile, pensiamo ad esempio ad internet o al GPS. Ci dica un breve vademecum per spiegare alla politica in cui lei ci è stato dentro e se ne è andato che tagliare la difesa vuol dire tagliare il futuro.

Tagliare la difesa vuol dire tagliare il futuro per due motivi diversi. Il primo è quello che ha detto lei, cioè la tecnologia; normalmente la difesa è uno dei settori nelle quali vengono sviluppate per prime le tecnologie innovative, ed è uno dei pochi settori – l’unico – in cui gli investimenti statali non vengono considerati aiuti di stato e quindi il motivo principale per cui alcuni paesi – anche i meno favorevoli dell’intervento dello stato in economia – sponsorizzano molto la difesa.

Se io devo pensare di costruire l’elicottero del futuro, lo faccio anche con miliardi di investimenti in ricerca per la difesa, gli Stati Uniti lo stanno facendo. Ma il giorno in cui ci sarà l’elicottero militare che raggiungerà il doppio della velocità, la tecnologia passerà al civile. Lo stesso per le tecnologie sviluppate per l’F-35. L’accessoristica dell’F-35 tra 5 o 10 anni magari la troveremo nelle autovetture, nei treni e nell’internet delle cose. Lo sviluppo della tecnologia militare, chiaramente, diventa civile. Per noi come Italia però ha un altro significato che nessuno coglie. Noi non ci sediamo al tavolo delle grandi potenze perché abbiamo centinaia di milioni di abitanti. Non ci sediamo al tavolo delle potenze perché abbiamo grandi risorse naturali. Ci siamo sempre seduti con dignità al tavolo delle grandi potenze perché abbiamo partecipato negli ultimi anni a tutte le missioni internazionali, perché avevamo un potenziale militare elevato e siamo considerati nel mondo anche da nazioni che normalmente non ci considererebbero perché abbiamo tecnologie militari che altri non hanno. E il motivo per cui il 95% dei paesi al mondo ci accoglie molto spesso in modo positivo pensando di avere da noi cose che altri paesi non gli potrebbero dare. E’ strano non rendersi conto che la diplomazia fatta attraverso le forze armate sia una delle poche chance di diplomazia che noi ancora abbiamo.

La interrompo un attimo perché lei qui ha detto una cosa molto importante che va di pari passo con quello che sta succedendo in Libia. Tante volte la politica e specialmente in Italia – e le parlo da un punto di vista di centrodestra – pensa di poter fare diplomazia solamente con le buone parole, mettendosi attorno a un tavolo, quando in realtà il mondo è fatto di nazioni più o meno democratiche che mettono sul tavolo arsenali atomici, eserciti che si mobilitano subito e truppe sul campo. Lei quindi coglie un argomento che secondo me è molto importante anche nella cronaca di oggi, parlo di questi giorni.

Certo, in Libia ci è mancato il coraggio di essere una grande nazione. Abbiamo perso peso perché non abbiamo fatto in Libia quegli investimenti in intelligence, in presenza militare, in presenza fisica che altri paesi hanno fatto.

Io infatti ricorderò sempre con molto rammarico quando Renzi, in uno dei suoi pochi sprazzi di lucidità, disse che l’Italia avrebbe guidato una delegazione militare di pacificazione in Libia. Lo promise all’allora presidente Barack Obama. Nel giro di due o tre mesi l’Italia si tirò indietro facendo una figuraccia internazionale. Mi riferisco a questo quando nel nostro paese di tende a non capire che la diplomazia non può non essere accompagnata da una componente – anche in misura minoritaria – militare.

In Libia chiaramente non si poteva non passare attraverso una nostra presenza militare. Se poi lo strumento era l’ONU, o la NATO, l’Europa, dipendeva dal nostro approccio politico. In Libia è mancata la volontà di scendere in campo e poi nessuno ha definito una linea. Non si può raggiungere un obiettivo quando non si sa dove vuoi andare.

Seconda domanda che invece riguarda più l’Europa. Riguarda l’integrazione di difesa al livello Europeo. Secondo lei quanto è importante l’integrazione militare tra paesi europei e quali sono i limiti, anche politici a una sempre maggiore sinergia? Si sa che alcuni paesi europei, eccetto la Francia che ne vuole prendere il comando, sono storicamente restii all’integrazione militare, ci dica argomenti a favore e contro sia da un punto di vista industriale che politico.

A favore c’è che ogni nuovo programma ha un costo tale che nessuna nazione europea può sopportare, nemmeno la stessa Francia che è quella che investe di più. Per cui i grandi programmi han bisogno di grandissimi finanziamenti e grandissimi costi di ricerca e sviluppo e quindi chiaramente una massa critica europea ci metterebbe all’avanguardia nelle tecnologie. Inoltre consentirebbe di mantenere tecnologie sovrane e avrebbe un bacino di clientela molto più vasta rispetto a quello delle singole nazioni, mettendoci quindi nelle condizioni di competere con gli Stati Uniti e la Cina in questo settore. Ciò detto, questo sarebbe possibile se non ci fosse la volontà egemonica di Francia e Germania, sopratutto la Francia, che ha la stessa mentalità di Highlander. Ne rimarrà solo uno: cioè una sola industria di difesa, le altre devono morire. Tra quelle che devono morire c’è la nostra che è la terza incomoda. È l’unica che può, in qualche modo contrastare le velleità francesi di essere l’unica industria di tutta l’Europa.

Tra l’altro, noi abbiamo anche un’importantissima presenza dell’industria della difesa nel Regno Unito, pensiamo a LEONARDO UK, pensiamo al programma TEMPEST che facciamo in alternativa al programma franco-tedesco.

L’unico settore nel quale noi siamo leader in Europa è quello navale ma anche lì la Francia sta cercando di insidiarci.

 

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