corridoni

Il 23 ottobre 1915 moriva a San Martino del Carso Filippo Corridoni, sindacalista rivoluzionario, pubblichiamo la prefazione di Enrico Nistri alla nuova edizione di “Sindacalismo e Repubbblica”, il libro più rappresentativo del pensiero di Corridoni riproposto da Idrovolante edizioni.


 

Ripubblicare un testo fondamentale di Filippo Corridoni, insieme ad alcuni saggi di indubbio interesse per la comprensione del suo breve ma intenso itinerario politico e umano, costituisce, oltre a un’operazione culturale di indubbio spessore, un generoso tentativo di celebrare, al di fuori dell’ambiguità che ha contraddistinto molte commemorazioni ufficiali, il centenario dell’ingresso dell’Italia nella grande guerra.
L’interventismo, infatti, è una data che da tempo non gode di buona stampa. Grava su di essa il peso di due speculari mistificazioni, l’una antica, fascista, l’altra antifascista, più recente. La prima si può riassumere nella frase “Maestà, io vi porto l’Italia di Vittorio Veneto”, attribuita a Mussolini quando si presentò al re dopo la marcia su Roma. In realtà a volere la grande guerra non erano stati solo i fascisti: l’interventismo era stato un fenomeno di vasta portata che aveva coinvolto destra e sinistra, nazionalisti e socialisti moderati o rivoluzionari, monarchici e repubblicani. Certo, tutti o quasi i gerarchi si erano distinti in combattimento, ma nessuno di loro poteva rivendicare il monopolio del patriottismo.
L’altra mistificazione, quella antifascista, è figlia della ventata antimilitarista che già nel ’68 increspò le celebrazioni del cinquantenario della Vittoria, quando pure era presidente della Repubblica un uomo come Saragat, volontario nella grande guerra. In base a essa l’intervento sarebbe stato imposto alle pacifiche masse socialiste e cattoliche da una congiura di palazzo con la complicità di qualche retore prezzolato, di un socialista rinnegato, di un pazzo che esaltava la guerra “sola igiene del mondo”. Di qui la simpatia per i “vinti di Caporetto”: i renitenti, i disertori, i fucilati, vittime magari di sommarie decimazioni.
La realtà è più complessa: l’interventismo non fu un’esclusiva di pochi. L’insofferenza per la Triplice Alleanza, l’irredentismo, la convinzione che l’Italia, fattasi troppo facilmente Stato unitario, avesse bisogno di una guerra come grande “esame di maturità” per divenire davvero una nazione avvicinavano destra e sinistra, repubblicani e socialriformisti, laici e cattolici, anarchici e conservatori. Accomunavano Togliatti, volontario nella Sanità e poi negli Alpini, e Mussolini, Nenni e Bissolati, don Sturzo e Ferruccio Parri. La Toscana e Firenze, la città della “Voce” e di “Lacerba”, che col suo istituto di studi superiori esercitò una straordinaria attrattiva su generazioni di irredenti, sono state il cuore di questo movimento. Interventisti furono Gaetano Salvemini e Giuseppe Prezzolini, che pure da ragazzo si era fatto riformare alla visita di leva, Pietro Jahier e Ardengo Soffici, il livornese Giosuè Borsi e il viareggino Lorenzo Viani, il “teppista” Ottone Rosai e il quindicenne Curzio Suckert, non ancora Malaparte, nonché, fra i cattolici, il futuro presidente della Repubblica Gronchi e il futuro “sindaco dell’Alluvione” a Firenze Piero Bargellini, decorato al valor militare come don Giulio Facibeni, fondatore della Madonnina del Grappa, e il padre domenicano Maccanti, cappellano della brigata garibaldina Alpi caduto a Bligny nel 1918. Sotto un certo punto di vista proprio sui campi di battaglia del ’15-18 ebbe luogo una “pre-conciliazione” morale fra i cattolici e la nazione che anticipò la Conciliazione giuridica del ‘29.
Certo, l’esame di maturità rivendicato dalla pedagogia della “Voce” ha presentato un conto troppo alto: economico, politico e soprattutto umano. Un conto che però, settant’anni fa, non era facile prevedere. Ma non è un buon motivo per disprezzare il sacrificio di quanti hanno dato il meglio di se stessi in quella che consideravano la quarta guerra d’indipendenza. La comprensione per i vinti di Caporetto non deve farci vergognare dei vincitori di Vittorio Veneto, né indurci a equiparare agli eroi di guerra coloro che furono vittime di decimazioni e processi sommari all’indomani di Caporetto.
Fra questi vincitori e questi eroi, anche se la morte precoce gli negò la gioia della vittoria, vi fu senz’altro Filippo Corridoni, di cui è doveroso esaminare i molteplici volti: il sindacalista, l’interventista, il volontario, lo scrittore, così come è senz’altro interessante, nel convegno tenutosi a Parma il settembre scorso, indagare sulla formazione del suo mito, sui monumenti che gli furono dedicati, sulla sua controversa eredità etico-politica.

La figura di Corridoni

È un’indagine doverosa, perché Corridoni non è una figura di facile interpretazione. Il suo itinerario politico e intellettuale è ricco di bruschi colpi di scena, sia pure all’interno di un’intima coerenza morale. Fu acceso antimilitarista e convinto interventista. Esordì nella politica e nel giornalismo con un foglio intitolato “Rompete le righe” e divenne sostenitore del “Popolo d’Italia”. Aderì all’Unione sindacale italiana con Giuseppe Di Vittorio e Alceste De Ambris, ma percorse un itinerario analogo a quello di Mussolini, da cui fu paragonato a un “nomade della vita”, con la bisaccia piena più di sogni che di pane. Poco più che autodidatta, col suo diploma di disegnatore tecnico, fu scrittore prolifico ed efficace, ma il libro della sua vita lo scrisse col sangue. Roso dalla tisi, volle essere arruolato ad ogni costo e abbandonò il suo reparto di retrovia per andare al fronte rischiando la corte marziale. Sfidò la morte, da interventista intervenuto, con lo stesso coraggio prossimo all’incoscienza con cui, da tribuno antimilitarista, sfidava i questurini. Morì il 23 ottobre, nei pressi di Redipuglia, alla trincea delle Frasche, ottenendo una medaglia d’argento alla memoria che Mussolini da presidente del Consiglio avrebbe tramutato in una medaglia d’oro. Il fascismo gli intitolò piazze, strade e scuole, gli edificò monumenti, come quello di stampo futurista a Fogliano Redipuglia, ribattezzò Corridonia la sua città natale, l’antica Pausula. Insomma, costruì il suo mito, per opera soprattutto di Malaparte, che nelle pagine dell’Europa vivente fece di lui il profeta del sindacalismo nazionale. Per questo agli occhi di molti il suo ricordo è indissolubilmente legato al regime, anche se Di Vittorio ne rivendicò sempre la memoria, persino quando presso la sinistra era divenuta scomoda.
Alceste De Ambris, che dopo l’esperienza fiumana si spostò su posizioni antifasciste, accusò Mussolini di “usurpazione di cadaveri” e di “profanazione di sepolcri” per quest’opera di appropriazione della figura di Corridoni. Ma in realtà non è facile immaginare quali sarebbero state le scelte politiche dell’Arcangelo del sindacalismo se fosse sopravvissuto alla guerra. Sarebbe prevalso in lui il sentimento nazionale o il richiamo sociale, la repulsione per il fascismo agrario o lo sdegno per il massimalismo dei socialisti che strappavano le decorazioni ai decorati e offendevano i mutilati di guerra?Senza dubbio, però, non manca un’intima coerenza nel trascolorare dell’originario antimilitarismo corridoniano nel mito mazziniano e garibaldino della nazione armata. Il suo “ritorno alla Patria” presenta molte analogie con quello del suo amico Lorenzo Viani, che lo difese con passione anche se purtroppo senza molto successo quando i socialisti impedirono un suo comizio interventista a Viareggio e morì nel 1936, anch’egli amico personale di Mussolini, dopo aver aderito al regime.
Se non sappiamo che cosa Corridoni avrebbe fatto, sappiamo in compenso quello che l’Arcangelo del sindacalismo ha fatto nel corso della sua vita breve quanto intensa. Non è certo poco: anche per questo è giusto rileggerlo a un secolo dal suo sacrificio.

 

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