I conti non tornano. La logica nemmeno, ma quello sarebbe il meno, in un Paese coscientemente restio ai ragionamenti perché – si sa – gli scemi non vanno alla guerra. Non ci vanno neppure i 600 docenti universitari che tra spari di cannone evidentemente a salve qualche giorno fa hanno diffuso un accorato appello. Il succo? Gli studenti non conoscono la grammatica e questa sarebbe – per come in effetti è – «una tragedia nazionale»amore-grammaticalmente-scorretto-12.

Ma qualcosa non quadra. «Circa i tre quarti degli studenti delle triennali sono di fatto analfabeti, con errori appena tollerabili in terza elementare», scrivono gli accademici. Ora, stando ai dati forniti dall’Ocse e da altri enti, con riferimento all’ultimo lustro risulta che gli immatricolati siano stati annualmente all’incirca 270.000 e che, mediamente, si siano avuti ogni 12 mesi 200.000 laureati, come avvenuto nel 2015. Insomma, pure in un contesto in cui le immatricolazioni – specie quelle di giovani residenti al Meridione – crollano rispetto al primo decennio del secolo perché i giovani alle università manco più si iscrivono (e su questo sarebbe il caso di fermarsi a riflettere), le lauree sfornate sono pur sempre rilevanti, in percentuale, rispetto agli iscritti. Se la matematica non è un’opinione, v’è da ritenere che tra i laureati ve ne siano dunque molti incapaci di leggere e scrivere correttamente in italiano. Al che la domanda sorge spontanea: chi ha promosso asini patentati? Chi ha consentito che negli ospedali, nei tribunali, nelle scuole (sigh!) potesse aggirarsi gente incapace di scrivere un referto medico, un atto di citazione, un dettato? La risposta è tra le righe del grido di dolore: «Abbiamo bisogno di una scuola esigente nel controllo degli apprendimenti». Colpa della scuola, allora. Ma perché i professori delle università non iniziano a dare il buon esempio, negando voti alti e laurea ai loro allievi – come li chiamano loro – semianalfabeti?

È chiaro: la crisi esiste, ma non è figlia del presente: i laureandi di oggi (che di quel che capita non hanno nessuna colpa, anche se ne scontano la pena) hanno iniziato gli studi negli anni Novanta, in un panorama scolastico disegnato da ministri colti, gente della Prima Repubblica tanto apprezzata quanto a capacità e competenze politiche e culturali. Il risultato è evidente. Non sarebbe allora il caso di interrogarsi – anche – sull’incidenza che sul fenomeno, al netto di programmi confusionari e riforme sballate, hanno avuto e continuano ad avere la disgregazione delle famiglie e la mortificazione degli insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado, università inclusa, spogliati del loro ruolo e ridotti – a volte per propria libera scelta – a trasferire nozioni più che sapere, con tacita rinuncia al compito di educare?

Non è un libro, non è un metodo, non sono i programmi – o per lo meno, non sono solo quelli – a forgiare uno studente. Serve ben altro. E non arriverà certo dal Parlamento, men che meno dal Governo, ai quali i 600 docenti si sono rivolti. Tra i destinatari anche la ministra dell’istruzione, Valeria Fedeli, che s’è affrettata a far sapere: «La scuola è un fallimento. La rivoluzioneremo». Parola di ministro con finta laurea.

Tag: