Dove tutto è mafia, niente è mafia.

Massimo Salsano da che parte stare l’aveva sempre saputo: da quella di chi la legge la difende e la fa applicare. Di più: dalla parte di chi la rappresenta. Ma il 10 Luglio del 2014 d’improvviso s’era ritrovato sbattuto dall’altra parte della barricata. Quell’anno, il 21 di Giugno, Papa Francesco era sceso a Sibari, e dal cuore della Piana che fu degli Achei, e che negli ultimi 40 anni è diventata feudo di ‘ndrangheta, lanciava il suo anatema contro i mafiosi. Scomunica, atto simbolico di potenza dirompente, per dire agli uomini ed alle donne dei clan: inutile cercare di carpire il consenso popolare strumentalizzando la religione, perché dove c’è Vangelo non può esserci mafia. E viceversa. Né più né meno di quello che la Chiesa aveva sancito nel Maggio del 2013, elevando agli onori degli altari Pino Puglisi, parroco di Brancaccio ucciso in odium fidei su ordine dei Graviano: lo ammazzarono perché da prete – attraverso la predicazione, l’esempio e l’impegno civile e sociale – sottraeva alle cosche manovalanza e consenso popolare. Senza neppure un titolo di giornale o una comparsata nei salotti televisivi.professionisti-antimafia-art-giornale

Ne aveva sentito parlare, il maresciallo Salsano. E forse in cuor suo pensava che fosse cosa buona e giusta. Che fosse anzi normale tirare una linea, finalmente netta, e tenere fuori dalle cose di Chiesa – e dalle chiese – picciotti e padrini. Ma non era di certo affar suo. Lui, uomo di legge, doveva pensare ad altro. E lo stava facendo, in quel caldo giorno d’estate, mentre coi suoi carabinieri seguiva da vicino la statua del Patrono, in processione per le vie del paese. Un paese, San Procopio, spesso in cronaca e segnato dalla violenza criminale. Tragicamente normale, nella terra dove la pianura si fa montagna che prende il nome d’Aspromonte. Da queste parti chi resta non va perché non sa dove andare. Perché magari vorrebbe e non può. O magari ostinatamente vuole restare, perché crede che qualcosa possa ancora cambiare, anche appresso ad una statua.

Ma il destino che per secoli s’era ripetuto uguale il 10 Luglio del 2014 scarta e cambia. La processione ferma il suo cammino. Pochi secondi, una ventina appena, mentre una donna va incontro alla statua a segnarsi la croce. È la pietra dello scandalo: la sosta viene spacciata per inchino. Un omaggio ai padroni del paese, strillano i giornaloni e le reti dell’antimafia militante che incrociano i fatti d’Aspromonte con la scomunica papale. Lo scandalo è servito. E per il ligio maresciallo Salsano si schiudono le porte dell’inferno: superiori e autorità varie chiedono come sia possibile che la statua d’un santo venga portata ad ossequiare gli ‘ndranghetisti mentre è scortata dai carabinieri. Il sottufficiale non ha bisogno di difendersi. Scrive ciò che ha visto. I suoi occhi raccontano di una pausa casuale, in un punto come un altro, affatto coincidente con l’uscio dell’abitazione del boss del luogo, Nicola Alvaro. Ma non gli credono. La macchina mediatica ormai in moto lo travolge. Le grandi firme e gli opinionisti televisivi dall’indignazione facile ed un tanto al chilo riciclano il più trito dei luoghi comuni: sui monti di Calabria si fanno carte false pur di coprire la realtà.

Inevitabilmente, il comandante di Stazione Massimo Salsano finisce nel registro degli indagati. E con lui il parroco, il sindaco ed il vicesindaco. Loro indagati di calunnia aggravata da modalità mafiose. Lui di aver scritto una relazione di servizio attestando il falso. E mentre l’antimafia che vede mafia dappertutto tranne dove c’è, che la scorge finanche nelle scritte di vernice sui muri (come se i mafiosi avessero sostituito le bombolette spray ai kalashnikov), il maresciallo si trova sotto la lente della Dda. E ci resta per tre anni. Fino a quando un giudice si ricorda di quel fascicolo ancora aperto e decide di trattarlo. Che poi, da fare c’è poco: la stessa Procura, resasi conto dell’abbaglio, ha già richiesto l’archiviazione. Non c’è bisogno, insomma, nemmeno di andare a processo: gli indagati vanno prosciolti. Anche Salsano. Le indagini hanno permesso di acclarare che la processione si fermò casualmente per meno di mezzo minuto, che quando il fatto avvenne il boss non era nemmeno in paese, che a muoversi verso la statua (e non il contrario) fu la moglie di Alvaro. Il tutto ripreso dalla telecamera di un impianto di videosorveglianza, e dunque a prova di smentita. «Non c’è stata alcuna anomalia», precisa il gip provvedimento di archiviazione: «Solo una fermata, tra le tante, preceduta dall’offerta votiva al Santo Patrono».

Perché la verità fosse riconosciuta, sono stati però necessari più di tre anni. E quando la voce del proscioglimento s’è diffusa, gli antimafiosi di professione non hanno fatto una piega. A carriera fatta, si sono ben guardati finanche dal concedere qualche riga alla notizia. Del resto, «il popolo, la democrazia», annotava amaro Leonardo Sciascia, «sono belle invenzioni: cose inventate a tavolino da da gente che sa mettere una parola in culo all’altra e tutte le parole nel culo dell’umanità».

E così giusti sotto inchiesta, mafiosi in libertà. È la regola, dove tutto è mafia e niente è mafia.

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