Tra Björn Borg e John McEnroe ho sempre preferito il primo. Ma in quegli anni di leggendari scontri e fazioni contrapposte non seppi darmi delle spiegazioni plausibili. Nello sport, sin da bambini, si scelgono idoli e squadre per affinità elettive, per ragioni geografiche, per opportunismo. Eppure, pur interrogandomi di continuo, non conoscevo il motivo reale di questa scelta per l’uno e non per l’altro. Peraltro, da pessimo tennista in erba, mi dilettavo nel ‘gioco a rete’ che fu caratteristica dell’americano, mentre disdegnavo le lungaggini arzigogolate da ‘fondo campo’ che, invece, erano tipiche dell’algido svedese.

E anche per le vicende italiane avevo fatto una scelta simile. Nella diarchia tennistica nostrana c’era infatti una medesima contrapposizione, seppur in sedicesima e quindi con livelli qualitativi di circoscritte dimensioni: quella tra Corrado Barazzutti e Adriano Panatta. Pure in quel caso, le mie preferenze muovevano verso il posato giocatore da fondo campo, e mi dava noia la mediaticità del romano, seppur più vincente a livello internazionale.

Sentivo Borg e Barazzutti più vicini per carattere e non per stile di gioco, per la loro ritrosia e ostentata timidezza ma, in fondo, non potevo non ammirare la genialità degli altri due.

E l’antinomia principale tra Borg e McEnroe fu proprio questa. Il glaciale svedese con lunghi capelli biondi e fascia alla fronte (proprio come Barazzutti) svernava per tutta la durata dell’incontro da fondo campo senza mai smuoversi di un solo centimetro dalla riga bianca. Ossessivo nella ripetitiva e martellante strategia che prevedeva lo sfiancamento progressivo dell’avversario con colpi precisi e regolari. Una sorta di macchina votata alla vittoria e a null’altro. Era il nordico calcolatore, razionale fino alla noia, conservatore dedito ad un gioco che faceva perno sull’utilitarismo e perciò poco spettacolare. Dei tifosi e degli spettatori gli importava poco: contavano i set, le partite, i trofei.

McEnroe fu tutt’altro. Americano sbruffone e sregolato, piaceva al jet set proprio come il nostro Panatta. Dotato di una fantasia mai più vista sui campi rossi dove riusciva a farsi gioco di tutto e di tutti, anche degli arbitri che furono per lungo tempo sottoposti ad una lunga e variopinta serie di improperi. Intemerate che solleticavano il gradimento del pubblico amico e l’irritazione feroce di quello avversario. Ma gli appassionati non potevano fare a meno di restare incantati da quelle serie di colpi inusitati; e -sotto sotto- anche smaniosi di assistere all’eventuale e prevedibile rissa verbale, che fu consuetudine di molti irregolari del tempo da Nastase a Connors.

Cosa dunque avesse Borg di così magicamente oscuro da affascinarmi non lo sapevo. Lo scoprii, anni dopo, proprio grazie a Panatta, quando in una intervista raccontò della sua amicizia con lo svedese. Ne venne fuori un ritratto del campione di cui tutti erano a conoscenza tranne il sottoscritto. E non era affatto il robot di cui parlavano e scrivevano. Aveva debolezze come tanti. E dipendenze dalla droga e dal sesso. Mentre di giorno rasentava la perfezione stilistica sui campi da gioco con quella faccia da bravo ragazzo del nord, nel post-gara bisbocciava in locali notturni smentendo tutto quanto si era sempre detto sulla correlazione tra vita salubre ed eccellenti risultati sportivi.

Lo stesso Panatta confessò anni dopo di non aver compreso come fosse possibile questa magica scissione tra Jekyll e Hyde tale da non produrre mai disastri sulle performance sportive. Il tennista romano raccontò di essere stato battuto in una gara – proprio da Borg – dopo che la sera prima, questi lo aveva invitato ad accompagnarlo in un locale notturno. Lo svedese fece l’alba con donne e champagne, poi andò sul campo e sconfisse un Panatta per nulla rinvigorito dal sonno ristoratore e ancor più imbufalito per essersi perso una nottata fuori dalla norma.

Scoprii così il lato umano, le deficienze e la solitudine, le esuberanze liminari alla distruzione fisica e psicologica e l’angoscia di un disorientamento dal sociale da cui non riusciva a venirne fuori.

John McEnroe era una casa di vetro. Appariva così com’era, e dunque alla fine era lui quello prevedibile. Forse fu quest’aspetto a non intrigarmi più di tanto e a farmelo ammirare solo per quel paio di ore che dispensava genialità nel rettangolo da gioco.

Borg fu invece il caleidoscopio delle possibilità umane. Vincente in campo e sopraffatto dalla vita. Era umano, fin troppo umano.

 

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