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L’elezione dei presidenti di Camera e Senato ci consegna una condizione politica con inediti riposizionamenti partitici e di singole leadership. M5S e Lega, considerati dalla stampa movimenti populisti e antisistema (ma la Lega governa gran parte del Nord da una ventina d’anni e i Cinquestelle la capitale d’Italia e Torino!), quindi poco propensi alla sfiancante dialettica parlamentare, hanno adottato con eccellente, e per certi versi insperato acume tattico, tutti gli strumenti per raggiungere un traguardo condiviso. Lo hanno fatto con qualche azzardo e furbizia e, nel caso della Lega, con una fuga in avanti che ha rischiato di fare a pezzi un’antica e solida alleanza, ma entrambi hanno vinto la loro partita.

Sappiamo tutti che per i grillini il compromesso non sia contemplato in alcuna ipotesi di scuola e, sin dalla loro prima apparizione sullo scenario pubblico, quel «Vaffa» generalizzato che ricomprendeva tutto e tutti era aprioristicamente ‘escludente’. Ma potevano permetterselo perché non si erano mai posti questioni così ‘alte’ e dirimenti come la scelta delle più importanti cariche dello Stato o la eventuale formazione di un nuovo governo. Candidarsi alla guida di una città o di una regione è infatti cosa ben diversa dall’assumere su di sé onori ed onori di una presidenza della Camera o la guida di una nazione.

Abbiamo assistito ad una campagna elettorale in cui tutti i partiti hanno ribadito con l’abituale prassi demagogica l’avversione verso qualunque ipotesi di accordo col ‘nemico’. Nel nostro Paese, la fase che precede il voto è un caravanserraglio di toni apocalittici, promesse mirabolanti e assenza di ogni sfumatura a cui ci siamo tristemente assuefatti. Poi, però, come sempre, la realtà fa aprire gli occhi. Sopraggiunge la conta dei voti e c’è da rianimare la fucina politica che sottende all’azione di governo e non alla semplice propaganda e perciò, in maniera automatica, si ritorna nei ranghi.

Non è una ‘diminutio’ ma un passo in avanti. Ho ripetuto in questi giorni, e con una certa ossessività, la massima di Giuseppe Prezzolini: « La politica è una statua di fango; può anche essere bellissima, ma chi la fa deve sporcarsi le mani». E visto il risultato delle urne, dove c’è uno sconfitto ma non dei vincitori capaci di formare autonomamente un governo, questa considerazione può calzare a pennello per la fase di stallo.

Si è dovuto trovare l’accordo tra ‘diversi’, pena l’impasse istituzionale. Ci si è dovuti muovere in maniera discorde da quanto auspicato in campagna elettorale perché non c’erano alternative. E così gli antichi contendenti si son dovuti ‘sporcare le mani e costruire questa ‘statua di fango’ agevolati dal fatto che il terzo incomodo, un impalpabile Partito Democratico, si è scioccamente tirato fuori da ogni possibile concertazione, obbligando gli altri in un campo d’azione limitato a non più di un paio di mosse.

Per adesso, l’unità d’intenti pare limitata ai Presidenti delle Camere e nessuno si azzarda in previsioni che potrebbero essere smentite da qui a qualche ora. L’unico punto chiaro è che l’accordo ha fatto saltare taluni schemi mentali (i grillini hanno accettato i voti del «mafioso di Arcore»), provocato fratture (Forza Italia-Lega) e poi ricomposizioni le quali, però, non sappiamo quanto possano essere stabili nel medio-lungo periodo perché le scosse telluriche nel M5S (che per ora annacqua le rivendicazioni ‘puriste’ dell’ala ortodossa gratificando il suo leader Roberto Fico con una carica prestigiosa e impensata fino a qualche anno fa) e nel centrodestra (sopratutto in una confusa FI disorientata e furente per il frenetismo di Salvini) avranno delle ripercussioni che, per adesso, sono solo sopite.

 

 

 

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