1Come può essere definito l’atto estremo di Jan Palach? Disperato o eroico, vibrante di fremiti patriottici o frutto di egoismo angosciato? In un tempo come il nostro, un gesto simile avrebbe di certo affollato le misere arterie dei social, occupato per qualche giorno o, al limite, per qualche settimana, il dibattito pubblico e poi sarebbe stato triturato dall’affastellarsi di nuovi e succulenti eventi. Eppure, se dopo cinquant’anni gli echi delle sue gesta e di quelle dei suoi compatrioti risuonano ancora con una forza incredibile, se sulla sua tomba non mancano mai fiori portati da qualche anonima manina, se continuano a moltiplicarsi iniziative in suo onore, vuol dire che, nonostante la cappa di scaltro silenzio, i semi lanciati in quel lontano 19 gennaio del 1969 stanno dando dei frutti.

Palach è infatti un fantasma che ritorna in superficie periodicamente e che la memoria selettiva di una Europa refrattaria ad ogni anelito spirituale non riesce e non riuscirà a cancellare. Potente in quanto non comprimibile in un assetto ideologico o parte politica. Dirompente proprio perché assolutamente privo di retropensieri o connessioni partitiche. Una pietra miliare che si impone con la sua assenza e per l’autorevolezza e la dignità di un gesto che, a noi occidentali, europei, moderni abitatori del terzo millennio, pare ai limiti della follia e incomprensibile sotto ogni punto di vista. Ma Palach non era uno squilibrato in cerca di gloria e dunque un disadattato che bramava la celebrità, magari avendo la mente ottenebrata da una ideologia uguale e contraria a quella sovietica. Era uno studioso di filosofia. Un giovane appassionato di storia e di politica, che contro un leviatano mastodontico e impenetrabile, non trovò altra soluzione che combatterlo in maniera alternativa e non convenzionale. Si diede fuoco nella Piazza San Venceslao di Praga per protestare contro quei carri armati, simbolo di violenza, abominio e costrizione («Io non sono un suicida – disse – sono la luce che ha illuminato il buio che è sceso sulla Cecoslovacchia. Anche una piccola torcia, nel buio, può diventare un faro che illumina il mondo. I giovani cecoslovacchi sono disposti a morire per dare luce».).

Ma quelli erano tempi da ‘‘guerra fredda’’ e non tutti ne parlarono con dovuta fermezza e auspicata ossessività. Muovere delle critiche ai paesi sovietici, demolire o confutare il comunismo e le sue magnifiche sorti, disegnare un quadro fortemente negativo di quelle esperienze, significava rompere delicati equilibri sotterranei e interni ad ogni singolo Paese che, pur in un ambito di conflitto aperto, andavano comunque salvaguardati. Tranne qualche accenno in talune opere di qualche cantautore e le commemorazioni dei movimenti giovanili di destra che incominciarono ad intensificarsi nei decenni successivi, il suo ricordo si attutì progressivamente e il suo coraggio e la sua protesta, così come di tanti altri, furono ben presto dimenticate.

Quando sua madre, nel 1971, lamentava di essere rimasta sola: «So che il mio ragazzo non è stato dimenticato ma nessuno è mai arrivato fin qui a portarmi una parola di bene. Le autorità hanno paura del mito di Jan e tentano di seppellirlo con l’ordine del silenzio. Solo io posso andare a pregare sulla sua tomba: i cancelli del cimitero sono sorvegliati dagli agenti ed è vietato deporre fiori. Avevo fatto costruire una lapide di bronzo: mi hanno ordinato di toglierla. Jan è un morto scomodo …», ne aveva tutte le ragioni. Nei giorni immediatamente successivi i media internazionali e la stessa Chiesa cattolica ne diedero ampio risalto ma, come detto, nel giro di qualche mese, tutto rientrò nella più bieca e disarmante normalità. Tuttavia, oasi di memoria non parcellizzata sono state tenute sempre vive.

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Queste nebbie che si sono addensate nel corso del tempo intorno ad una vicenda tragica ma insieme esaltante, si sono sporadicamente diradate attraverso un costante appello alla verità da parte di realtà isolate e pur tuttavia vivificato mediante azioni concrete. Strutturare quel ricordo per imprimerlo nella nostra memoria, in qualunque modo e attraverso ogni strumento ordinario o inconsueto, è sempre azione meritoria. Ecco perché aver pensato ad una grafich novel (Jan Palach. Praga 1969. Una torcia nella notte) come ha fatto Ferrogallico Editrice, e quindi aver creato un fumetto (il primo!) sulla sua vicenda raffigurandone non solo le intime aspirazioni e poi la fine tragica, ma gli affetti, l’impegno politico, la spensieratezza e lotta, è il modo più diretto e immediato per ottemperare a questo obbligo morale.

Se gli echi di quel gesto, oltre a saggi accademici, articoli di giornale e convegni, trovano una loro pratica aderenza anche grazie ad uno strumento giovanile (… ma non giovanilistico) come il fumetto, vuol dire che i semi della ribellione contro quell’abominio totalitario oltre a dare i frutti sperati, stanno alimentando nuove piantine di libertà. Con i testi e i disegni di Petr Vyoral, curatore dell’edizione originale Ceca, la prefazione di Emanuele Ricucci, e una postfazione di Umberto Maiorca, questo volume va a sostanziare quel coacervo di iniziative, che, come si diceva, si sono dispiegate solitarie negli anni, ma che ora paiono finalmente intensificarsi e muoversi in ogni direzione.

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