Muoversi lungo le traiettorie di pensiero di Julius Evola, vuol dire intraprendere un cammino costellato di simboli, allusioni, neologismi, metafore, ma avulso da una vera ricognizione sul suo conto e su faccende più ordinarie.

Il cammino del cinabro fu un’autobiografia intellettuale che tentò di mettere sistemazione tra i suoi scritti e di svelare punti di vista che non fossero relativi al solo pensiero ma che, nonostante le buone intenzioni, restò imprigionato anch’esso nell’esegesi filosofica. Qualunque annotazione ulteriore alla speculazione intellettuale sembrava funzionale alla declinazione delle sue teorie e anche qualche fugace deriva intimistica lasciava trapelare ben poco della vita dell’autore.

Fu un’operazione complessa per essere afferrata dal grande pubblico, anche se in tanti si imbarcarono in quell’impresa che presupponeva la conoscenza di quasi tutte le sue opere. Come una bussola, infatti, Il cammino del cinabro si insediava tra le più oscure sinuosità cercando di portare della luce. In realtà, resta un testo impenetrabile se non si è padroni di quel pensiero e di quel linguaggio.

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Gianfranco De Turris e Andrea Scarabelli, rispettivamente autore della prefazione e curatore di Autobiografia spirituale (Edizioni Mediterranee, pp. 152), compiono una operazione meritoria proponendo questo nuovo volume che, per taluni aspetti, integra proprio Il cammino. Oltre alle tesi di Evola, si scende finalmente in originali aneddoti e qualche informazione personale, anche col corredo di un corposo corredo di note non solo biografiche. Non una mera operazione di colto pettegolezzo né, al contrario, un rimestare nella sfiancante diatriba tra evoliani, antievoliani e, come li definì lui stesso, «gli evolomani».

Questa Autobiografia spirituale è soprattutto frutto di quella lunghissima intervista realizzata tra il 1969 e il 1971 da una Tv francese che, nella sua integralità, è inedita in Italia. E perciò si differenzia dal Cammino già dal taglio linguistico visto che Evola, in un contesto rilassato, spiega le sue opere da una prospettiva diversa. Si sofferma, per esempio, con più leggerezza intorno ai parametri del suo concetto di libertà assoluta, tanto che quando gli chiedono perché non si fosse mai sposato, risponde in questo modo: «Perché tengo – ho sempre tenuto – alla mia libertà, in senso assoluto. Non conosco nemmeno la mia famiglia; cioè, so che c’è, ma ho sempre vissuto in una maniera assolutamente indipendente e anti-borghese. Per lo stesso motivo, non ho mai avuto un impiego in un ufficio. Ho sempre preferito avere meno possibilità ma una libertà totale. E poi, vede, da un punto di vista sessuale, non sono per la monogamia».

Vengono quindi riportati tre testi degli anni Venti che spiegano del suo passaggio dal dadaismo («per noi il dadaismo era qualcosa di molto serio: non aveva il significato di un’arte qualsiasi. Non era il tentativo di creare un’arte nuova. Si situava all’opposto del futurismo, totalmente infatuato dal futuro») alla filosofia e all’esoterismo; pagine in cui ci racconta dei suoi studi di matematica, delle letture giovanili, del suo rapporto con Guénon, con Marinetti («Molto violento, molto sensuale, molto spontaneo») ed Ezra Pound («Ho avuto tra le mani alcune raccolte di sue poesie, e devo dirle francamente di non capire troppo perché sia considerato un grande poeta, il migliore dei nostri giorni»).

In vari contesti aveva affermato che la scrittura dei sui libri viaggiava su due strade separate. A volte era quasi per ‘iniziati’, altre per il lettore-tipo. Questa autobiografia spirituale pare essere utile per entrambi.

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