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Gli ultimi secoli hanno rappresentato il più violento e accidentato terreno di scontro tra Ragione e Fede. Ora assistiamo inerti ad una fase ulteriore, quella di una secolarizzazione trionfante che assume dimensione piena e illimitata. La stragrande maggioranza delle persone asseconda infatti l’assoluta irrilevanza del discorso religioso nella sfera pubblica e vede nella dimensione della fede solo una consolazione privata.

È dunque apparentemente paradossale l’operazione che compie Marcello Pera in Critica della ragione secolare (Le Lettere, p.195), perché va oltre la descrizione della condizione attuale, tentando un percorso a ritroso alla ricerca di un originario e perduto punto di connessione.

Se nei tre libri precedenti aveva ridefinito il rapporto tra liberalismo e cristianesimo in Europa, in questo caso cerca di spingersi fino al momento in cui si prese atto del nascente conflitto ma ci si arrese ad un fatalismo che portava dritto al primato della Ragione. E tutto – a suo dire – sarebbe partito da una mala interpretazione di Kant.

L’analisi si focalizza in un lasso di tempo che va dal seicento all’illuminismo e su quella rivoluzione del pensiero scientifico da cui dipese «il grande scisma». Fu in quell’epoca che l’uomo moderno iniziò ad affidare il proprio destino alla Ragione esautorando ogni forma di conoscenza e di intuizione, ivi compresa la Rivelazione. Quello sarebbe lo snodo di tutta la vicenda della modernità, quando fu recisa la possibilità di affermare il primato della Ragione contestualmente al valore insopprimibile della fede religiosa cristiana. E si sarebbe caduti in questo tranello anche per una superficiale lettura di Kant. Averlo infatti inteso come un agnostico, una sorta di laico secolarista, senza recuperare l’altro versante del suo pensiero, sempre poco esplorato, quello in cui modernità e cristianesimo paiono potersi congiungere, sarebbe stato l’errore capitale.

Se Kant, dunque, per un verso afferma che filosofia e teologia, tentando di dimostrare l’esistenza di Dio, sarebbero arrivate alla inconfutabile conclusione che non vi sono prove dell’esistenza, dall’altro sostiene che la fede in Dio è anche fatto razionale, perché può essere il presupposto del sapere positivo e postulato del dovere morale. E su questo secondo crocevia avremmo dovuto agganciarci facendo nostro il suo tentativo di combinare entrambe le esigenze dell’uomo moderno: dare sfogo massimo alla conoscenza scientifica, ma anche non essere lasciato solo, senza la fede in Dio.

Kant tenta infatti l’interpretazione della Scrittura in termini morali. Possiamo in realtà discernere cosa è bene e cosa è male proprio perché c’è un Dio personale che giudica e ha accesso alla nostra sfera più intima. Ecco il motivo per il quale la morale fondata sulla Ragione coinciderebbe con l’insegnamento fondamentale del vangelo. La Scrittura avrebbe un significato morale accessibile alla ragione di tutti e, di conseguenza, il Dio cristiano non potrebbe che avere un significato ineliminabile nella coscienza dell’uomo moderno.

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