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«Per lungo tempo si è voluto credere che il giovane Gentile fosse indifferente al problema politico, incontrato tardi e affrontato senza gli strumenti concettuali adatti. Invece, seguendo la lezione del maestro, Donata Jaja, Gentile rintraccia nel corso degli eventi la struttura ideale ad esso sottesa. E rilegge Rosmini e Gioberti, suoi punti di riferimento fino alla morte, in chiave antisensista, come trasvaluta i concetti chiave del marxismo, riconducendolo nell’alveo dell’hegelismo. Sullo sfondo, però, la battaglia contro il positivismo, l’antropologia e la politica che ne derivano».

Così, Antonio Giovanni Pesce, sintetizza nella seconda di copertina, il suo ultimo lavoro, La filosofia della nuova Italia (Algra editore, p.130, euro 12) nel quale tratteggia il progetto etico-politico del giovane Giovanni Gentile. Di seguito, un breve stralcio tratto dall’Introduzione

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Fare storia della filosofia significa, per chi non si limita a raccontare – è possibile tuttavia limitarsi a raccontare? – ma vuole creare lo spazio perché qualcosa di più profondo di una teoria emerga, significa fare una storia dell’apologia del filosofare. Non vi è epoca dell’umanità, e ciascuno di noi lo sperimenta in ogni stagione del proprio impegno speculativo, in cui non ci si debba preoccupare di difendere il valore dell’atto del filosofare, soprattutto quando questo non si fa moda, né si ricerca lo scandalo spiccio da diffondere nel mondo dei bit.

Perché è necessario ancora difendere la filosofia? Si nota subito se la filosofia è svago, e non impegno etico attraverso cui esprimere il proprio essere, ed esprimendolo, farlo ogni giorno – caratteristica di quell’essere che può dire Io. Lo si nota non appena, davanti a coloro i quali «si trovano sempre facilmente d’accordo, dietro alle spalle del filosofo, ad ammiccare, sorridere o sghignazzare come briachi, di questa veramente divina attività, che pur li sostiene»[1], e per i quali nulla o poco si può fare per farli tornare sobri, si battono due strade: chiudersi in un mestierante logorio di parole, di glosse ad altre glosse, senza neppure la responsabilità di dialogare con i classici, che è ancora filosofia, perché i maestri si incontrano, non si scelgono; o lamentare la durezza dei tempi, il degrado dei costumi. Dimentichi che Socrate ebbe, tra i suoi detrattori, Aristofane, e che semmai oggi manca un commediografo che pensi, mentre la scena del mondo trabocca di saltimbanco della politica e funamboli del pensiero.

C’è bisogno ancora di filosofia, perché ci sono ancora coscienze che devono essere presenti a se stesse, e la presenza di sé a se medesimo è come svegliare forze inaudite, ed evocare l’ispirazione per la stesura dell’unico dramma che poi, infine, importi: il nostro esistere. Dimenticarsi invece è ancora quiete, seppur a buon mercato. L’inquietudine non è pazzia, e viene normalizzata, standardizzata, quando viene ridotta a maniera. L’inquietudine è la coscienza che vuole farsi autocoscienza, per dirla nel linguaggio di Gentile: è l’atto del pensiero che anela a farsi uno con il pensato. Anelito che è già denuncia di una metafisica non formalizzata, ma agente nei meandri dell’idealismo attualistico.

Virtù e demeriti di Gentile come uomo del suo tempo sono tutte racchiuse nel suo concetto di filosofia, il quale si ampliò in circa trent’anni senza mai smentirsi. Ha ragione chi, anch’egli divenuto maestro, ha colto un punto fondamentale[2], dimenticando il quale non si coglie, sotto la corazza del linguaggio hegeliano, la grandezza a cui aveva spinto il pensiero il filosofo di Castelvetrano: Gentile aveva portato fuori dalle secche dello gnoseologismo la filosofia. Questo è il punto: la filosofia non è raccolta di teorie o suggerimento di comportamenti, ma è la luce che illumina l’emergere dell’Io che si fa persona, cioè relazione con altri, e infine mondo.

La filosofia per Gentile non è più posizione di problemi teorici, né può ridursi a manifesto di idee politiche. Perché farlo significherebbe ridurla a metodologia, uscere che introduce a camere più importanti. Significherebbe distruggere la dialettica di pensiero e pensato, di persona e mondo cioè, riducendo la prima al secondo, quando, semmai, è il pensiero ad essere atto, principio e culmine del processo dialettico.

A più di vent’anni dai lavori giovanili, quali La filosofia di Marx o il Rosmini e Gioberti, Gentile scriverà, negli ultimi capitoli del secondo tomo del Sistema di logica, il suo manifesto filosofico, in cui vibra la conquista di una concretezza dell’esistere, che poi ricorderà su Primato ai partecipanti alla discussione sull’esistenzialismo:

L’uomo, è vero, prima di pensare vive. Ma in che senso? Egli prima di proporsi quei problemi astratti nel cui dibattito altri fa consistere il pensiero, l’uomo si propone e risolve nella prassi i problemi della vita. Se non che appunto in questa prassi, in cui si vengono ponendo tutti i problemi concreti che soli hanno valore filosofico, si realizza il vero pensiero dell’uomo e l’uomo viene perciò filosofando. […] Ogni soluzione che l’uomo verrà tentando del suo problema, consisterà, e dovrà consistere, in un incremento e in un’assicurazione della sua vita, di quella che è la vita della sua stessa vita, trionfo di quell’Io con cui egli vive la sua vita, la quale è sempre sostanzialmente pensiero[3].

Non c’è prassi, non c’è teoria – c’è vita, concretezza nell’atto con cui l’uomo cerca sempre di conquistare la vetta più alta, se stesso. È questo il modo di fare filosofia che accomuna tutti i grandi e che il nostro secolo ha dimenticato: non dare per diviso ciò che diviso non è. Forse, ci ha indotti ad errare lo stesso linguaggio gentiliano, focalizzato sul termine Io. Ma se l’Io tramutasse in Identità, quell’identità che sono sempre io stesso, allora non ci sarebbe corpo e non ci sarebbe mente senza l’Identità che le vive in sé, e i mutamenti in una parte e dell’altra non sarebbero i mutamenti di una parte e di un’altra, e non essendo mutamenti di una parte e dell’altra, ma in una parte o nell’altra, forse li riconosceremmo per quello che sono realmente – mutamenti di me, dell’Identità che sono io.

Il linguaggio gentiliano non può essere accettato fuori dalla tradizione di pensiero dentro la quale è venuto a formarsi. Sembra, ancora, un cedimento ad un misticismo gnoseologista, ma non è così.

Ma se non c’è teoria e non c’è prassi in astratto, ma solo come momenti del vivere[4], di un vivere che si amplia al superamento del problema che ci si pone innanzi, allora ogni pensare come ogni attività sono «pur sempre filosofia»[5]. Così, la filosofia non è più materia di studio, specialismo gerarchizzato in strutture di ricerca, ma ciò per cui e di cui visse e morì Socrate, all’esempio del quale forse bisogna ritornare, se continua ad affascinarci il mistero dell’essere, e non la vanità del mondo. Non fosse che per il fatto che il mondo va in pezzi, non appena ci disgreghiamo come identità.

Ora, si può capire perché, nei primi due scritti dell’esordio filosofico (se si escludono quelli di scuola e qualche recensione), Gentile prendesse di mira due concetti: l’intuito e il materialismo. E perché lo facesse: Spaventa aveva fatto partire la filosofia moderna dall’umanesimo italiano e, attraverso un lungo percorso, tramite Rosmini e Gioberti l’aveva fatta tornare in Italia, inserendo così, almeno culturalmente, la nascente nazione nella Storia dell’Europa e con piena dignità.

Tutto, allora, doveva passare il vaglio di Kant ed Hegel, che di questo processo erano state le vette più alte. La tesi di laurea fu un momento non meno importante del ben più visibile lavorio sui testi di Marx e di Labriola, perché si estese anche alla discussione epistolare con il maestro, Donato      Jaja[6]. Proprio Jaja, in una memoria letta in qualità di socio all’Accademia di scienze morali e politiche della società reale di Napoli, aveva risollevato il problema dell’intuito, del quale – scriveva – non si sentiva più parlare, quantunque ritenesse che a cader in disuso fosse stato solo «il nome»[7]. E quando Jaja, più avanti[8], facendo l’esempio di un minerale, scriverà che l’oggetto, veduto, è affermato nell’atto mentale, è con Kant che concluderà il ragionamento. Nella Dottrina trascendentale degli elementi, nella prima Critica, Kant afferma:

Senza sensibilità nessun oggetto ci sarebbe dato, e senza intelletto nessun oggetto pensato. I pensieri senza contenuti sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche. È quindi necessario tanto rendersi i concetti sensibili (cioè aggiungervi l’oggetto nell’intuizione), quanto rendersi intelligibile le intuizioni (cioè ridurle sotto concetti). Queste due facoltà o capacità non possono scambiarsi le loro funzioni. L’intelletto non può intuire nulla, né i sensi nulla pensare. La conoscenza non può scaturire se non dalla loro unione. Ma non perciò si devono confondere le loro parti; ché, anzi, si ha grande ragione di separarle accuratamente e di tenerle distinte[9].

Invero, tutta la tesi sul Rosmini e Gioberti sarà incentrata sull’unione, più che sulla distinzione, di intuito e ragione, e più avanti negli anni il problema sarà assorbito dentro quello del sentimento. Ma è perché il kantismo – checché se ne dica, la vera cifra dell’attualismo – deve comunque concordare con Hegel, del quale il giovane filosofo ricordava quando si legge nell’Enciclopedia della scienze filosofiche in compendio a partire dal paragrafo 446 (culmine il 450): «L’intelligenza rivolge essenzialmente la sua attenzione anche verso e contro questo proprio essere-fuori-di-sé, ed è il destarsi a se stessa in questa sua immediatezza, è il suo ricordarsi entro sé in questa immediatezza. In tal modo, l’intuizione è questa concretezza materiale e di se stessa, è il Suo, per cui non ha più bisogno di questa immediatezza e di trovare il contenuto»[10].

Più avanti, Gentile non dimenticherà questo problema: la teoria dell’intuito non garantisce l’oggettività della verità, perché la verità si dà come pensiero, e il pensiero, se mai fosse possibile, nell’intuito non c’è[11]. Se mai fosse possibile! Perché, in realtà, possibile non è, e non lo è perché non pensare non si può, e l’oggetto intuìto è ancora un oggetto pensato, ancorché, in questo caso, il pensiero si fissi sul suo essere altro.

Questa continua presenza di sé a se medesimo è la cifra portante dell’attualismo. Ma non è questo il momento di fare bilanci. È il momento di notare come la lotta contro il materialismo, che anima la rinascita dell’idealismo, questo visto in chiave antipositivista, si dia nel giovane Gentile nel rapporto dialettico tra la tesi di laurea e i saggi su Marx. Intuito e materialismo storico rientrano nei ranghi dell’idealismo, per farvi rientrare anche Rosmini, Gioberti e Marx. Soprattutto quest’ultimo, dato che sui primi due s’era espresso già Bertrando Spaventa.

Da questa operazione, una nuova concezione dell’etica, della politica, perfino della stessa storia italiana. La libertà c’è e va coltivata, non è mai eslege, e ciascuno di noi può disporre di sé solo nel rapporto con quanto è già divenuto. Non ci si inventa una persona che non si è mai stata, né ci si inventa nazione. Ciascuno è nel rapporto con se stesso, con la propria storia. Un rapporto dinamico tra pensare e pensato, perché, come scriveva Hegel nei Lineamenti di filosofia del diritto, «il pensiero libero non resta fermo al dato … ma procede da se stesso e, appunto per questo, pretende di sapersi unito, nella sua più profonda interiorità, con la Verità».[12] Non c’è un dato, perché dato è fissita astratta. Ma il dato, in quanto è cercato, diventa sempre più parte del soggetto, che non potrà mai annientarlo in se stesso, ma neppure, in quanto ricercato, lasciarlo slegato da sé. Ecco, dunque, che la società non si rivoluziona, ma la si riforma. E la si riforma non a proprio capriccio, ma in un dialogo costante con ciò che è stato, che è il dato, ma non fisso e immutabile.

Per questo la filosofia non è sterile chiacchiera da accademici né chiosa da studiosi, ma la coscienza profonda di ogni esistere. Ed è sempre per questo che teoria e prassi sono unite, ma in Gentile la prassi è pensata, cioè perfino nei primissimi studi non è l’agire che fa il pensiero, bensì è il pensiero che rischiara il senso dell’agire. Questo, ovviamente, distingue nettamente la filosofia di Gentile, a partire dai suoi primi bagliori, dal marxismo. Non rivoluzione, ma tradizione, cioè innovare conservando.

Se, nel proseguo della vita, Gentile non riprese i suoi studi su Marx, fatta accezione per una nuova edizione di questi scritti negli anni Trenta, è perché riteneva di aver chiuso i conti col marxismo, dimostrandone l’hegelismo carsico. Riprenderà fino all’ultimo il suo Rosmini e Gioberti, che, forse, doveva essere la strada per riconquistare un cattolicesimo sempre sentito interiormente, ma distante nelle sua storia filosofica. Una nuova tensione, di cui la Filosofia dell’arte è documento, sollecitato dai patti tra Stato e Chiesa.

La vita venne meno, e nel modo tragico che tutti conosciamo. Così, il credente Gentile fu salvo con una continua professione di fede, che culmina nella conferenza del 9 febbraio 1943[13]. Non così il filosofo Gentile, che in tutta la vita di uomo maturo tentò di unire ciò che, nato da presupposti sbagliati, era destinato a rimanere distinto.

 

Note

[1] Giovanni Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, Le Lettere, Firenze, 2003, vol. 2, p. 266.

[2] Gustavo Bontadini, Gentile e noi, in Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, a cura della Fondazione Giovanni Gentile per gli studi filosofici, Sansoni, Firenze, 1948, vol. 1, pp. 103-124; e in Id, Dal problematicismo alla metafisica, Marzorati, Milano, 1952, pp. 7-26.

[3] Giovanni Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, cit., pp. 252, 254.

[4] Cfr. Giovanni Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica, I. Pedagogia generale, Firenze, Sansoni, 1942, p. 79.

[5] Cfr. Ivi, p. 354.

[6] Cfr. Marialuisa Cicalese, La formazione del pensiero politico di Giovanni Gentile (1896-1919), Marzorati, Milano, 1972, p. 35.

[7] Cfr. Donato Jaja, L’intuito nella conoscenza, Napoli, Tipografia della regia Università, 1894, p. 3.

[8] Cfr. Ivi, pp. 28-29.

[9] Immanuel Kant, Critica della ragion pura, trad. di Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo-Radice, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 78.

[10] G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, § 450, trad. it. Vicenzo Cicero, Bompiani, Milano 2000, p. 737.

[11] Cfr. Giovanni Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, cit., vol. 1, pp. 64-65, 70-71.

[12] G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it. Vicenzo Cicero, Rusconi, Milano, 1998, p. 43.

[13] Cfr. Giovanni Gentile, La mia religione, con postilla di U. Spirito, in Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, a cura della Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi filosofici, 13° vol., Roma, 1971.

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