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È da pochi giorni uscito Montanelli e il suo Giornale, un libro di Federico Bini in cui si tenta di ricostruire la storia di quel legame sin dalla fondazione del quotidiano.

Il volume è corredato da testimonianze e interviste tra le quali quelle di Gian Galeazzo Biazzi Vergani, Giorgio Torelli, Livio Caputo, Alberto Pasolini Zanelli, Giancarlo Mazzuca, Fedele Confalonieri, Roberto Gervaso, Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro, Paolo Guzzanti, Giancarlo Perna, Luigi Iannone, Pietrangelo Buttafuoco, Marcello Veneziani, Nicola Porro, Alessandro Sallusti, Carlo Grandini, Vittorio Frigerio, Alfonso Izzi, Francesco Damato, Alfio Caruso, Fernando Mezzetti, Livio Caputo, Alberto Pasolini Zanelli, Catterina Arpino, Paolo Longanesi, Tiziana Abate, Alberto Mazzuca, Marco Vitale,

 Quella che ripropongo qui, di seguito, è l’intervista fatta da Bini al sottoscritto (pp.235-242).

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Giuseppe Prezzolini come si sarebbe posto nei confronti dei nascenti e affermati movimenti sovranisti? Sull’Europa a rileggerlo fu lungimirante.

Difficile dirlo. Sarebbe stato spiazzante, come sempre. Magari si sarebbe tirato fuori dalla contrapposizione manichea tra sovranisti e globalisti, europeisti e patriottici, e così via. Ma qui entriamo nel campo delle interpretazioni postume e si fa un cattivo servizio se continuiamo a decifrare il possibile o l’eventuale.

Non crede tuttavia che un’Europa debole e divisa rischi di rimanere schiacciata e ininfluente dinanzi al sempre più forte tripolarismo tra Stati Uniti, Cina e Russia?

Già lo è! Se ancora l’Ue ha una parvenza di centralità nelle questioni internazionali, lo deve alla sua storia millenaria. Ci sono tanti fronti caldi e anche chi è poco attento alla geopolitica si rende conto che, nonostante una economia mediamente solida, il futuro si sta dispiegando da tutt’altra parte. Il capitalismo dirigista cinese, pur con tutte le sue drammatiche contraddizioni, la rinata potenza russa, con limiti in tema di democrazia interna e diritti, gli Stati Uniti, con la loro finta politica isolazionista ed effettiva visione imperiale, sono i tre pilastri che reggono le sorti del mondo attuale. La storia la stanno facendo loro.

Quali sono le origini del successo della linea sovranista e cosa la differenzia dai passati nazionalismi?Proprio il fatto che la decadenza e il tramonto di una certa idea dell’Europa non è più solo strumento di propaganda politica ma triste realtà quotidiana. I popoli europei hanno prima intuito e poi compreso che questa Unione è stata fatta in maniera sbrigativa, senza solide basi politiche e una piattaforma ideale comune. La discussione sulle radici cristiane portata avanti per qualche tempo e poi relegata nei cassetti dei burocrati di Bruxelles ne è una riprova.

Ritiene che sia una fase transitoria o che abbia solide basi politiche e culturali nonché sociali da creare un consistente blocco sociale?

Carl Schmitt diceva che a fronte di un mondo che tende sempre più all’uniformizzazione si sarebbero creati dei grandi imperi, delle grandi aree geopolitiche più o meno omogenee, tali da fungere l’uno da contrappeso all’altro. Gli Usa sono una potenza da tempo. La Cina lo è diventata da poco. L’Europa, se non si impone un repentino cambio di marcia, sarà destinata a frantumarsi e a quel punto realtà politiche sovraniste saranno sempre più legittimate a far sentire la loro voce.

Il successo di Salvini, la presidenza Trump, la vittoria della Brexit, il lepenismo e l’ascesa di Kurz. Si sta creando a livello mondiale, in particolare in occidente un sovranismo internazionale? Se sì, quali sono i punti in comune? (Salvini ha già parlato di una Lega europea. Steve Bannon ha lanciato il progetto di The Movement ).

Il punto in comune è l’evidente idiosincrasia verso un ordine globale che profuma di ‘totalitarismo morbido’ come ebbe a dire Günther Anders. Tuttavia, per definizione, i sovranismi sono tra loro confliggenti sul medio-lungo periodo.

Quale significato hanno oggi fascismo e comunismo?

Per chi ha un minimo di sale in zucca dovrebbero rappresentare dei fenomeni che appartengono al passato. Ma sappiamo bene che non è così. Oggi, fascismo e fascista sono sostantivi e aggettivi intercambiabili e chiunque non accetti o proponga percorsi diversificati dal pensiero unico globale, rischia di veder se stesso o le sue idee classificate sotto quella categoria. L’uso strumentale che se ne fa è evidente a tutti ma continuiamo a far finta di niente.

I conservatori possono essere rivoluzionari?

Solo i conservatori possono essere rivoluzionari. Che cosa c’è di più rivoluzionario, in un tempo asfittico come il nostro, di difendere la famiglia tradizionale? Che cosa di più rivoluzionario e trasgressivo di difendere l’idea che i figli debbano nascere da un uomo e una donna, e che i genitori debbano appartenere ad entrambi i sessi? Che non si debba scadere nel burocratese e chiamarli «genitore 1» o «genitore 2»? Che cosa di più trasgressivo del difendere gli usi, i costumi, le lingue, le specificità dei popoli e delle singole culture? Che cosa di più sovversivo del tirarsi fuori dalle secche del politicamente corretto e del buonismo?

Quale ruolo riveste Firenze tra fine ‘800 e inizio ‘900 sul piano letterario e culturale? Sarà proprio nella città un tempo medicea che nasceranno il Leonardo, Lacerba e La Voce.

Accadde uno di quegli eventi straordinari, quasi irripetibili, cui contribuirono una serie di fattori ambientali, politici, culturali e generazionali. In linea temporale siamo dopo l’Unità d’Italia e poco prima la Prima guerra mondiale. Già solo questo ci permette di comprendere in quale vortice si cacciarono questi ragazzi poco più che ventenni. Le riviste, tutte, furono un laboratorio d’idee con una forte tensione ideale e morale.

Come si differenziavano e quali battaglie ideali portavano avanti queste tre riviste? E qual è la loro eredità, soprattutto in riferimento alla Voce? Le riviste toscane del primo Novecento sono ‘inclassificabili’. Possiamo semplificare dicendo che rappresentarono un punto d’approdo per tutti gli spiriti controcorrente che non vollero supinamente arrendersi al disfacimento morale e politico. D’altra parte, come si fa a trovare una definizione per una rivista, per esempio, come La Voce, dove collaborarono Salvemini e Mussolini, Croce e Gentile, Soffici e Papini, Amendola e Saba. E infatti, se solo restiamo al piano politico, la migliore definizione la diede Curzio Malaparte quando disse: “La Voce fu la serra calda del fascismo e dell’antifascismo”. Lo stesso potremmo dire per le altre due riviste. Un coacervo di personalità e di idee che quasi mai trovarono una sintesi.

Dalla Voce di Prezzolini al Giornale “nuovo” di Montanelli, Il Borghese di Longanesi, il Candido di Guareschi… per citare i più famosi. In realtà, l’Italia ha espresso una prestigiosa e variegata stagione conservatrice, nonostante la famosa frase prezzoliniana: “I conservatori? Ci vorrebbero ma non ci sono». Questa dei conservatori è allo stesso tempo una benedizione e una dannazione. È davvero desolante il fatto che tutte quante queste personalità non abbiano mai trovato il modo per dar vita ad un blocco politico compatto. Non siano, cioè, mai riusciti a tradurre questa enorme produzione culturale in concreta attività politica. Ma forse è stato meglio così. Lei si immagina Longanesi, Prezzolini, Papini, Montanelli e Guareschi seduti allo stesso tavolo per trovare una sintesi politica o scrivere un programma di governo?

Montanelli che di Prezzolini fu amico e grande estimatore, che tipo di conservatorismo espresse nell’Italia della contestazione, del compromesso storico e poi del pentapartito?

Il conservatore è portatore di valori antichi ma – a differenza di quello che comunemente definiamo ‘progressista’ – è sempre legato al tempo e al luogo in cui vive. Un conservatore dell’Ancien Régime non sarà mai simile ad un conservatore americano di inizio Novecento, e così via. Montanelli, pur in un riconoscibile quadro ideale complessivo, è un conservatore che vive il tempo dei blocchi contrapposti e della guerra fredda. Fu aspro fustigatore di costumi e critico acerrimo della Democrazia Cristiana, ma quando il pericolo del sorpasso comunista sembrò imminente invitò gli italiani a turarsi il naso e votare scudocrociato. Prezzolini, sia perché viveva all’estero che per il fatto di volersi tenere sempre fuori da diatribe di questo tipo, non scese mai nell’agone politico. Anzi ripeteva con una punta di orgoglio: “Mi domandarono che cosa preferivo fra la Sagrestia e la Camera del Lavoro. Risposi: la Cantina”.

E soprattutto non trova che si posero sulla stessa linea critica alla borghesia italiana seppur muovendo da periodi storici diversi? Corradini la definì “sentina del socialismo”, una definizione che li avrebbe trovati pienamente d’accordo.

Molti erano figli della borghesia e avvertivano forte il senso di una responsabilità, oserei dire, di ‘classe’. Non dimentichiamo che l’inizio secolo fu caratterizzato da fortissime lotte sociali, violenti scioperi, guerriglie urbane e tumulti verso l’ordine costituito. Furono il segnale che questo giovane stato nazionale doveva ancora strutturarsi e se talune di quelle rivendicazioni erano condivisibili, per il resto l’ambiente vociano, quello nazionalista e poi anche quello futurista iniziavano ad immaginare qualcosa di diverso dalla rivoluzione rossa.

Di quale rinnovamento fu portatore Prezzolini?

Un rinnovamento morale e civile di una nazione che tardava a diventare tale. E lo intendeva come fatto catartico, come rigenerazione spirituale che doveva imporsi primariamente sulla società e poi su chi aveva poteri decisionali. E giustamente Giovanni Spadolini in Ritratto dell’Italia moderna ha affermato che le riviste rappresentarono il tentativo di “denudare tutte le miserie e ipocrisie e banalità del positivismo, in base ad un acuto, esasperato bisogno di rinnovamento morale, di sincerità, di spirituale eroismo, non senza accenni a un’esigenza religiosa”. Ma Prezzolini si accorse sin da subito che questi suoi tentativi erano destinati a fallire. La sua scelta di diventare apota è del settembre 1922, un mese prima della Marcia su Roma.

Il giolittismo. Partito su una linea ferocemente critica verso Giolitti, Prezzolini ebbe poi modo di ricredersi affermando: “In fondo quest’uomo freddo e burocratico, industriale e pratico, è quel che ci voleva per un popolo che si lasciava troppo spesso trascinare dall’entusiasmo e dalla retorica”.

Cambiò parere. E non fu l’unica volta perché amava affrontare ogni questione in maniera razionale e, quindi, sempre, pronto a mutare posizione. Gli riconobbe dei meriti di ‘comando’ in una situazione sociale caotica e sempre pre-rivoluzionaria.

È partendo da un attento studio di Machiavelli e del suo realismo e pragmatismo politico che Prezzolini rivalutò lo statista di Dronero? Per capire cosa intende Prezzolini quando fa riferimento al realismo politico mi permetto di citare due frasi che possono dare il quadro di riferimento in cui si muoveva. La prima: “La politica è una statua di fango, può anche esser bellissima, ma chi la fa deve sporcarsi le mani. Chi è convinto, col più nobile dei propositi, che convenga farla per il bene dei propri concittadini, ha giusta ragione di mettercisi con tutto l’impegno: purché non si faccia illusione che non si sporcherà le mani”. L’altra è del 1913, e credo possa essere la continuazione della prima: “Politica è realizzare, concretare, ottenere; politica è, insomma, Cavour e non Mazzini, Giolitti più che Crispi”. La visione politica di Prezzolini non si esaurisce in queste due osservazioni, ma c’è molto del suo approccio e della sua visione della vita.

In Italia abbiamo avuto tre statisti: Cavour, Giolitti e De Gasperi. Concorda e se no, chi avrebbe aggiunto e perché?

Questa definizione – come mille altre – ha assunto una accezione morale. Ma se restiamo solo all’ambito politico e il termine ‘statista’ rimane nel suo naturale alveo e, dunque, sta a significare solo chi ha rappresentato ai massimi livelli anche internazionali il nostro Paese, allora aggiungerei Mussolini, Fanfani, Andreotti e Craxi. E ne dimentico qualcuno.

Quanto fu importante per Prezzolini sul piano culturale e strettamente personale l’amicizia con Papini?

Fu essenziale. Almeno nella prima parte della sua vita si trattò di una vera e propria osmosi; poi, di complementarietà. Erano diversissimi, e infatti litigarono di brutto, ma si completavano a vicenda. E forse senza l’uno non avremmo avuto l’altro.

In che modo si differenziarono (nei mezzi) i tentativi di egemonia culturale elaborati su posizioni opposte da Prezzolini e Gramsci. E perché il secondo è riuscito a prevalere?

L’intellettuale gramsciano aveva come scopo primario l’essere strumentale al Partito e all’ideologia di riferimento. Tutto era in funzione di qualcosa al di fuori del suo libero esercizio culturale. Prezzolini, sin da subito, specificò di non voler aderire a partiti, ideologie e conventicole varie. E infatti non votò per tutta la vita proprio per tenersi fuori dalle contese. Non per vigliaccheria ma per giudicarle dall’esterno, in piena libertà di giudizio. Prevalse Gramsci e la sua teoria proprio per questo. L’uno si muoveva individualmente, l’altro sostenuto dall’apparato. Non poteva esserci partita. E non vi fu.

È ancora attuale l’Italia dei furbi e fessi?

Ho la sensazione che sia il nostro marchio di fabbrica e che da quella condizione non verremo mai fuori.

Il vero conservatore è realista? E quanto il realismo può sfociare nel pessimismo?

Sono termini che si compenetrano in maniera naturale. In linea di massima, il pessimismo è prerogativa dello scrittore o del romanziere, il realismo dell’uomo politico. Ma un conservatore è pessimista nella misura in cui è consapevole che gli uomini, in fondo, non cambieranno mai e quindi avranno continuamente bisogno di un minimo di regole condivise, che sono le stesse di sempre. Avranno bisogno dell’autorità, dell’ordine, di valori comuni, della disciplina, di qualcosa in cui credere, di una comunità familiare e sociale, di istituzioni riconosciute.

L’ultimo Prezzolini fu più realista o pessimista?

Forse al limite del cinismo anche se la sua continua ricerca della fede apre interrogativi su questa presunta o reale aridità che non sono ancora del tutto risolti.

Fu ‘solo’ un grande arcitaliano?

Le definizioni si sono sprecate. Arcitaliano, anti-italiano per troppo amore, ma quella più azzeccata rimane anarchico conservatore che scelse lui stesso: “Sono anarchico per indole, – diceva -, e conservatore perché la storia e la ragione mi hanno reso tale”. Ecco, fu un conservatore anarchico, come lo sono tutti i conservatori.

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