Di seguito, l’articolo integrale (pp.311-316) uscito sull’ultimo numero de IL PENSIERO STORICO (Rivista internazionale di storia delle idee), in cui “parlo” del libro di Robert Gerwarth, La rabbia dei vinti. La guerra dopo la guerra 1917-1923.

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Umiliazione, paura e sconcerto furono i sentimenti più comuni che scaturirono dalla carneficina della Prima Guerra Mondiale. Evento totalizzante ed eccezionale che spinse molti intellettuali a produrre romanzi eccelsi, commoventi memoriali, incantevoli e strazianti poesie nell’intenzione di saldare le intuizioni della cronaca più spicciola con uno scenario drammaticamente epico. I risultati furono di grandissimo valore sia sotto il profilo letterario che contenutistico, dei marchi a fuoco nei sentieri della storia. Da Erich Maria Remarque (Niente di nuovo sul fronte occidentale) a Carlo Emilio Gadda, da Emilio Lussu alle liriche di Giuseppe Ungaretti raccolte ne Il porto sepolto o all’arcinoto Addio alle armi di Ernest Hemingway, una serie infinita di capolavori che intercettarono sentimenti e vigliaccherie, eroismi e resoconti narrativi, lirismo a carnalità così come si conviene all’esperienza più dilaniante per l’umano.

Ma ad andare oltre, a scorgere l’orizzonte che si approssimava, il futuro prossimo sotto gli occhi di tutti e quello lontano, visibile solo a chi avesse capacità profetiche, fu Ernst Jünger di cui spesso ricordiamo (per contrapporlo proprio a Remarque) Nelle tempeste d’acciaio, uno dei suoi capolavori. Attraverso un originale lirismo che fondeva filosofia e letteratura, riuscì a descrivere la tragicità di quell’evento e, al contempo, quanto attraverso di esso si incarnassero valori individuali e collettivi, si celebrasse lo scontro come una esperienza interiore, una emozione eccitante (e perciò quegli assalti alla baionetta come furie di potente e liberatoria aggressività) e poi fosse anche veicolo divinatorio grazie al quale poter leggere la società del futuro. Pochi, infatti, come Jünger intuirono e anticiparono i tempi. E non solo sul piano meta politico e filosofico ma anche su quello pratico e concreto della geopolitica e delle relazioni tra Stati. Lo scrittore tedesco preavvertì che quel conflitto mondiale chiudeva un’epoca ma ne apriva una nuova con una serie interminabile di interrogativi e di questioni sociali, politiche, economiche irrisolte che tuttavia prendevano una piega non del tutto differente dal passato: «Questa guerra non è la fine, bensì l’inizio della violenza. È la forgia nella quale verrà plasmato un mondo con nuovi confini e nuove comunità. Nuovi stampi richiedono di essere riempiti col sangue, e il potere sarà esercitato con pugno di ferro» (La battaglia come esperienza interiore, 1928).

Questo scriveva Jünger, ma è anche ciò che mette a mo’ di esergo Robert Gerwarth nel suo libro La rabbia dei vinti. La guerra dopo la guerra 1917-1923 (Laterza, p.421). Non una scelta casuale. Gerwarth, direttore del Centre for War Studies di Dublino, attraversa con lucidità le vie svelate da Jünger, pur rimanendo ottimamente ancorato alla sua funzione di storico dell’età contemporanea, e quindi di analista poco propenso a sconfinamenti in altri campi.

La guerra finì effettivamente nel novembre del 1918 e una lettura superficiale del contesto sociale spingerebbe a conclusioni ovvie: le trincee, i campi di battaglia, i milioni di morti, si sarebbero dovuti palesare come terribili moniti per le future generazioni; condizioni naturali e sufficienti per mettere la parola fine su un capitolo drammatico della vicenda umana. In realtà, siamo solo all’inizio di nuovi sconvolgimenti. Le avvisaglie, e nemmeno di poco conto, già si segnalano in quello stesso periodo e in molti luoghi. Le regioni orientali, per esempio, fino al 1923, vedranno conflitti su larga scala scatenati per le più disparate motivazioni: scontri sociali legati alle condizioni di vita, rivolte causate dai confini territoriali, questioni connesse alle minoranze o alle fedi religiose. In un tale contesto geopolitico, vale a dire in una geografia continentale ridisegnata dopo il 1918 ma priva di qualunque equilibrio, non poche strutture statuali sembravano sfibrarsi e non resistere agli urti che da più parti arrivavano. Regimi e classi dirigenti così come Imperi secolari assistevano al loro tramonto inesorabile e nuove élite cercavano uno spazio vitale. Gerwarth va in profondità analizzando una ad una queste idiosincrasie che riesce a legare e a combinare con un certo acume in un quadro generale che preavvisa la catastrofe successiva che prenderà le forme di un conflitto mondiale a partire dal 1939.

Non a caso il sottotitolo La guerra dopo la guerra 1917-1923 fa innestare una serie di riflessioni su quel momento decisivo della vicenda europea quando termina ufficialmente il conflitto sul fronte occidentale, ma continua, con altre intensità e motivazioni, sul fronte orientale. La fine delle ostilità apre però una fase nuova che vede impegnati gli stessi Paesi dell’Europa centrale, travolti da guerre civili, rivoluzioni, sollevazioni popolari, deportazioni, pogrom. Questa volta non più truppe regolari a rappresentare gli Stati nazionali ma civili e membri di formazioni paramilitari. In un contesto del genere si inserisce anche la Rivoluzione d’ottobre che prospetta ulteriori scenari sovversivi e vie di fuga per coloro che anelano lo scontro sociale e politico e non hanno minimamente intenzione di abbandonare le armi.

Ecco perché, come ha sottolineato Emilio Gentile, il libro di Gerwarth si apre con due frasi, una di Jünger e l’altra di Churchill. Facce dissimili della stessa medaglia. Ma lo statista inglese, a differenza dello scrittore tedesco che guarda sin da subito molto più in là, ci riporta alle comuni convinzioni del tempo: «Entrambi le parti, vincitori e vinti, erano distrutte. Tutti gli imperatori e i loro successori erano stati deposti (…). Erano tutti sconfitti, tutti duramente colpiti; tutto quel che avevano dato, era stato vano. Nessuno aveva ottenuto nulla (…). I sopravvissuti, i veterani di tante battaglie, ritornarono alle loro case, portando l’alloro della vittoria o la notizia del disastro e le trovarono già travolte dalla catastrofe» (The Unknown war, 1931).

Jünger è invece il profeta che indica la via e che sembra determinare anche la visione prospettica di Gerwarth il quale, giustamente, rimane ancorato al quadro dell’analisi storica, perché appare condivisibile il tentativo di smontare, e in maniera pertinente, l’idea allora condivisa da tanti di un mondo pacificato e pronto a cambiare radicalmente direzione di marcia. La guerra sancì dei vincitori, Francia e Gran Bretagna, che grazie alla Conferenza di pace del 1919 riuscirono a imporre i loro diktat, ad estendere i possedimenti nelle colonie, ad imporre esorbitanti riparazioni di guerra ai vinti, come nel caso della Germania, il debito si ampliò a livelli incommensurabili. Fu in quell’anno che in molti si convinsero che la strada tracciata portasse verso una pacificazione non solo tra popoli ma anche ricollocando in maniera organica e definitiva i multiformi tasselli della geopolitica e quindi dei confini regionali e nazionali che trovavano ora una apparente saldatura, a sua volta ritenuta definitiva e chiave di volta per il progresso e la sicurezza («la creazione di un ordine mondiale sicuro, pacifico e duraturo»).

Al contrario, sappiamo invece che furono proprio quelle scelte ad esacerbare i posizionamenti e a renderli radicali e non conciliabili, ricreando tensioni che si stavano sopendo solo all’apparenza. Nonostante i proclami, fu la Conferenza di Parigi a far esplodere mille contraddizioni dato che in quella sede si dovettero accettare nuove realtà «che erano già state create di fatto sul campo, limitandosi al ruolo di giudici fra le contrastanti ambizioni delle varie parti in casa».

In queste contraddizioni penetra Gerwarth giacché, leggendo l’intera vicenda a posteriori, si dice convinto che creare artificialmente un mondo pacifico fosse un proposito ingenuo e utopistico; men che meno sciogliere tutti i nodi di una pace imposta e non quale prodotto di un processo fondato su “alti compromessi”. Lacerazioni che non si sanarono ma che anzi aggravarono le già precarie condizioni sociali ed economiche di molti paesi ed esacerbarono gli animi a tal punto che scioperi e rivolte furono all’ordine del giorno. Per molti popoli non cambiò infatti assolutamente nulla ma «vi fu solo una continua scia di violenze». L’Europa postbellica degli anni che vanno dalla conclusione ufficiale della Grande guerra nel 1918 al trattato di Losanna del luglio 1923, fu il luogo più violento del pianeta.

Dunque Gerwarth abbraccia questa minuziosa operazione analitica e la persegue con una specifica linea interpretativa, fotografando le singole situazioni e, al contempo, un intero periodo che si dimostrò più sanguinoso del precedente. Se solo ricordiamo gli avvenimenti più noti saltano infatti subito all’occhio l’inefficienza e i fallimenti in ogni possibile direzione delle prospettive di pace: vengono così in mente la nascita dell’Unione Sovietica, le vicende legate alla Turchia repubblicana, e poi gli scontri sociali nel cuore dell’Europa (Ungheria, Finlandia, Serbia, Irlanda, Polonia, Cecoslovacchia), i conflitti tra potenze statuali nell’Europa orientale ed infine le questioni legate agli Stati arabi del Medio oriente.

Certo, gli eventi russi furono il paradigma di quanto accadde nell’intera Europa, anche per l’impatto concreto sulle popolazioni e l’enorme viluppo di conseguenze sociali visto che «l’ostilità fra i sostenitori del colpo di Stato attuato dai bolscevichi di Lenin nel 1917 e i loro oppositori degenerò rapidamente in una guerra civile di proporzioni senza precedenti che alla fine avrebbe provocato ben più di tre milioni di vittime». Ma rivolte e violenze furono generalizzate.

Tutta questa distorsione interpretativa avvenne anche perché i Paesi europei «spesso sono stati descritti o attraverso il prisma della propaganda o assumendo il punto di vista del 1918, quando la legittimazione dei nuovi Stati nazionali dell’Europa centro-orientale esigeva la demonizzazione degli imperi dai quali si erano distaccati». Cosicché non pochi storici occidentali ritennero giusto «interpretare la Prima guerra mondiale nei termini di un’epica lotta tra gli Alleati democratici da una parte e gli Imperi centrali autocratici dall’altra (tralasciando il fatto che l’impero più autocratico in assoluto, la Russia di Nicola II, aveva fatto parte della Triplice Intesa)». Ed infatti, Gerwarth rilegge anche le nuove interpretazioni che mettono in discussione il fatto che gli Imperi centrali «erano più o meno degli Stati canaglia e delle anacronistiche prigioni dei popoli» e riportano il tutto «in una luce molto più benevola o quantomeno sfumata. (…) sarebbe difficile sostenere che l’Europa postimperiale fosse un luogo migliore e più sicuro rispetto a quella del 1914». E invece dalla guerra dei Trent’anni (1618-1648) non era accaduto nulla di simile e «soprattutto guerre civili dai confini così indefiniti e dal carattere così cruento come quelle degli anni successivi al 1917-1918».

Dal 1918 al 1923 le vittime furono «più delle perdite subite complessivamente dalla Gran Bretagna, dalla Francia e dagli Stati uniti nel corso della Grande guerra». Di questa che eufemisticamente definiamo disattenzione, Gerwarth dà la colpa a coloro i quali si adeguarono al modello interpretativo di Churchill il quale definì «guerre di pigmei» questi conflitti, con considerazioni così boriose che rinviano a «quell’atteggiamento intriso di pregiudizi antiorientali (e d’impronta implicitamente coloniale) nei confronti dell’Europa dell’Est che, dopo il 1918, prevalse per decenni nei libri di testo occidentali». Una lettura forzatamente monolitica nonostante tutto fosse già mutato con la Rivoluzione d’ottobre. La stessa natura della Grande guerra assunse una natura diversa perché si trattava di «conflitti per la vita o la morte, combattuti per annientare il nemico, etnico o di classe, secondo una logica genocida che in seguito sarebbe diventata dominante in gran parte dell’Europa fra il 1939 e il 1945».

Gewarth nota infatti che dal 1917 al 1920 vi furono ben ventisette mutamenti politici violenti e, per esempio, dopo gli Asburgo e la dissoluzione dell’impero, nacquero tanti piccoli Stati caratterizzati «dal capovolgimento delle gerarchie etniche». E così va dritto al punto quando punta l’indice contro la ricerca storica classica che avrebbe peccato di superficialità non riuscendo ad analizzare «in una prospettiva d’insieme le esperienze di tutti gli Stati europei sconfitti nella Grande guerra».

Esclusa l’Italia, nei Paesi europei vincitori «non si registrò un sostanziale aumento della violenza politica, anche perché la vittoria militare aveva giustificato i sacrifici degli anni di guerra e legittimato ulteriormente le istituzioni». Ma la rimodulazione della geografia politica portò alla disgregazione e al compattamento di nuove entità statuali, o modificate rispetto agli assetti prebellici, e milioni di persone si trovarono in una sorta di girone infernale da cui non sarebbero potuti uscire se non con ulteriore violenze. Se solo pensiamo alla Jugoslavia, quella sorta di impero in miniatura nel cuore del Vecchio continente, e «al capovolgimento delle gerarchie etniche interne», possiamo intravedere alcune delle cause che portarono al Secondo conflitto mondiale. Oltretutto, questi equilibri smantellati e posti malamente in ordine non potevano essere contenuti per lungo tempo. Ed è a questo punto che Gewarth fa notare che nei territori degli ex imperi dove le strutture statali avevano funzionato efficacemente «il ruolo degli eserciti nazionali venne assunto da milizie di vario orientamento politico e la linea di demarcazione fra amici e nemici, fra combattenti e civili, divenne terribilmente incerta».

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