L’era della spettacolarizzazione dei desideri più intimi e delle verità inconfessabili ha pervaso ogni aspetto del vivere civile. Le civiltà antiche fissavano dei paletti reali e metaforici oltre i quali entrava poi in gioco l’impenetrabile perimetro dell’indicibilità e della sacralità. Ora invece anche la morte e la malattia più crudele sembrano fuscelli da piegare al dozzinale dibattito.

Questa premessa che può apparire distonante – ma non lo è – mi è utile per dire che Nadia Toffa sta esondando da tempo. Risulta urticante tutto ciò che profferisce in merito al cancro, al fatto che sia «un dono» e che vada affrontato con la medesima baldanza e sicumera di chi si accinge a fare una corsa di atletica o una gita in montagna nel fine settimana. Comprensibile il suo desiderio di esternare al mondo la voglia di vivere, la forza intima scoperta dopo che i medici le hanno rivelato questa schifosa presenza. Come non compatirla e avere contezza del fatto che la sua irredimibile vitalità la porti a traslare un sentimento personale in un vademecum per la vita di tutti. Forse è carica di buone intenzioni… chissà… ma sembra voler istruire un protocollo dei sentimenti e delle sensibilità per tutti quanti noi, allo stregua di quanto fanno i medici con i pazienti. Ma non funziona così!

Il dato non trascurabile è che ad assegnare tutte queste aggettivazioni zuccherose per un morbo, appunto schifoso, è un personaggio pubblico le cui dichiarazioni hanno un impatto più potente rispetto al comune cittadino. Le sue frasi, così come quelle di chiunque altro passi per quindici minuti in quella dannata scatola, detonano di una inaudita intensità e non sono comprimibili. E allora risulta fastidioso, se non addirittura seccante, il fatto che ella voglia schematizzare il dolore e codificare la battaglia in schemi prestabiliti la quale, invece, è sempre personale e familiare, ripetendo con socratica fermezza: «è un dono», «è una argomento tabù», «va affrontato col sorriso», «non cambia la vita».

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Tutte sciocchezze. O almeno tutte verità aderenti alla sua vita personale che nessuno si permetterebbe di contestare. Ma sempre verità parziali, di un singolo individuo, per una personale esperienza. Perché ve ne sono tanti, troppi, che affrontano tale calvario e nessuno di essi utilizza il termine«dono», anzi maledicono e stramaledicono quell’attimo in cui il medico ha diagnosticato la malattia. Quel momento in cui un brivido freddo è corso lungo la schiena e, tremolanti, subito dopo, hanno manifestato una esplosione di rabbia tramutata in un oceano di sudore che ha impregnato ogni indumento. Quel momento in cui si rivedono come in un flashback le immagini di una vita, le carezze di una madre o di un figlio, o peggio ancora quelle non date e le parole non dette. Nei casi più tremendi, proprio un attimo dopo la terrificante sentenza, si inizia già a far di conto, a quanto resta da godere della vicinanza e dell’amore del familiare. E poi il pianto. Sì, il pianto, le grida e magari pure i pugni contro ogni cosa si mostri alla vista.

Certo, vi sono momenti in cui bisogna reagire, questo è assodato. Ma il buon Dio (se esiste) ci ha dato la forza per farlo, con diverse intensità e gradi di accettazione, tanto che nessuno, alle parole definitive e perentorie di un medico, si è dichiarato pilatescamente sconfitto e prendendo il malato per un braccio lo abbia spartanamente lanciato da un monte. In rarissimi casi ci si è lasciati andare mentre solitamente tutti combattono, con le forze morali, fisiche ed economiche a disposizione.

Non ne hai azzeccata una, cara Toffa. Il cancro non è assolutamente un dono perché è un male che strappa le carni e l’anima, traumatizza le famiglie e, in non pochi casi, impone una data di scadenza – come uno yogurt – alla persona che più ami su questa terra. E non è un argomento tabù: intere zone del nostro paese, penso alla mia Terra dei Fuochi, sono devastate dal fenomeno ed è terrificante e costante presenza.

Vuoi spiattellare il tuo sorriso appiccicandolo al dolore, ma dovresti sapere che non va imposto come un dogma perché la quasi totalità delle persone passa il tempo a dilaniarsi nell’antica e penosa domanda («perché è capitato proprio a me?») e ne ha tutto il diritto di farlo.

E infine, come fai a dire che non cambia la vita? La cambia, eccome! Innanzitutto, nelle cose pratiche. Nei viaggi in ospedale, nei turni di chemio, nel contatto continuo con medici e infermieri e, in specie, con altri malati, magari bambini, e nel fatto che ti devi sottoporre ad obblighi sanitari da rispettare, pena la tua stessa vita. Non puoi scegliere autonomamente cosa fare (… perché non sei mica dal fruttivendolo), ed insieme a te non possono farlo i tuoi familiari che soffrono in silenzio. Non puoi progettare il futuro e devi ripiegarti sul presente immediato.

E poi la cambia nello spirito. Viene messa a dura prova la capacità di sopportazione di ognuno, la forza di reazione e soprattutto, per chi crede, l’intensità e la profondità della fede. Non vi è infatti altro momento in cui l’Assoluto e l’inerme umano sono più vicini, in cui l’ignoto si scontra con la più misera e terrena delle ferite carnali.

E allora, ti comprendiamo solo perché è evidente che tu stia approntando una sorta di terapia psicoanalitica. Un modo come un altro per depotenziare il dolore e, attraverso la condivisione mediatica, tentando di disperdere in mille rivoli tristezze e malinconia, dolori e sofferenze atroci. Non dico che stai mettendo in piedi un Grande Truman Show, perché sembri sincera. Però sei talmente carica di forza di vivere che non ti accorgi che queste battaglie non sono un format televisivo e si possono combattere in mille modi. Ma raramente col tuo.

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