Fatto più unico che raro quello di dare un giudizio pienamente positivo su un volume che raccoglie scritti sparsi e che, ad una scorsa rapida, potrebbe rivelarsi come una ordinaria sommatoria di ritratti. Vale a dire, capitoli su capitoli, e su singoli personaggi, che parrebbero non intrecciarsi e invece mantengono, in maniera non soffusa e discreta, un legame strettissimo grazie al quale riusciamo a dare un senso di continuità e di profondità all’intero testo. Operazione riuscita a Isabella Cesarini con Anime inquiete (Auditorium editore, p.155, euro 14) che si fregia anche di una non banale introduzione di Pasquale Panella, poeta e scrittore, e che tutti ricordiamo per la collaborazione con Lucio Battisti.

Personaggi, personalità e vite inquiete, attraverso «la nota inconfutabile della loro esistenza»

In realtà sono loro a raccontarsi. Io sono stata il mezzo, la mano scrivente. Ogni personaggio è un appello, una sorta di richiamo primitivo al quale ho dall’inizio posto l’orecchio, e poi l’emozione. Inviti in ceralacca per entrare in una ballata, un romanzo, un’opera pittorica. E rispondendo all’invito mi sono fatta intermediaria tra loro e il lettore. Ho sentito le voci, spesso le grida e le ho prima assimilate e in seguito restituite sulla pagina. La nota inconfutabile di quelle esistenze disegna la nota inconfutabile di tutte le esistenze.

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Concetto che esprime anche Panella.

Sì, anche Pasquale Panella in prefazione. E qui mi prendo due righe per ringraziarlo. Per me è stata una prodigiosa visione sapere il mio libro accolto da colui che considero uno dei più grandi artisti italiani.

La vita di costoro (almeno di molti di essi) è stata debordante, un caleidoscopio di emozioni e avventure da essere evocativo di una scrittura e di un’arte non convenzionale.

Sono presenze che ho incontrato in diversi momenti della mia vita. Mi è restata indosso quella totale assenza di argini tra l’esistenza e l’arte. Può sembrare un elemento abbastanza ovvio, ma è importante indagare anche l’ovvio quando non lo è. Ovvero, nel mondo in cui vivo, continuo a sorprendermi di quanto in alcuni scrittori – in maniera più potente rispetto alla figura del pittore – la scrittura sia qualcosa che non continua la vita e viceversa. Forse è la mia visione ad essere sbagliata o finanche ingenua, ma io sono esattamente quello che scrivo. Nei personaggi raccontati ho potuto scorgere proprio questo aspetto che nell’oggi faccio fatica a trovare.

 In Cioran, però, quotidiano e arte si confondono, filosofia e carnalità. Un ‘disperato’ che pensa costantemente al suicidio ma, al contempo, fa le faccende di casa, si perde in passeggiate pomeridiane e financo nella siesta.

Cioran ha bisogno delle passeggiate, lo dice ne L’inconveniente di essere nati. Il camminare serve a non perdere il senno. Così la siesta pomeridiana gli è necessaria perché nella vita e nell’arte la costante è disegnata dallo sfiancamento dell’insonnia. Uno stato che condiziona il quotidiano, la scrittura, le relazioni. Insieme al suicidio è il tema ricorrente in tutte le sue opere. Poi c’è una moglie, un’amante e la parola filosofica a incorniciare il tutto.

 E come si inserisce in un contesto del genere, primariamente artistico, uno come Gustavo Rol.

Incontrai la figura di Rol durante il periodo universitario. Lavoravo su Fellini, ma il nome di Rol continuava a tornare. Decisi di approfondirlo e scoprii un mondo a me sconosciuto verso il quale nutro e continuo a nutrire forti dubbi. Ma Rol non è un impostore, la sua inquietudine è fame di conoscenza che estende in tutti i campi del sapere. È singolare pensare ad un uomo di fede, consacrato alla preghiera, praticare qualcosa da molti considerato vicino all’esoterismo. Ma proprio nell’incontro tra le fede e la sperimentazione risiede la sua unicità. Dopo aver letto i suoi scritti, che vanno dall’insegnamento dello spirito intelligente alle poesie, sono rimasta affascinata. E ho compreso in maniera maggiore i suoi rapporti con Federico Fellini.

 Sylvia Plath, invece, sembra quella che più ti ha coinvolta emotivamente.

L’elemento che tende a tornare in tutta l’opera della Plath è descritto da un considerevole senso di inadeguatezza. Lo scorgi nelle parole, lo senti nel corpo, ti rapisce lo sguardo e lo tiene prigioniero sino a fine lettura. Si tratta di una sensazione con la quale intrattengo una relazione da molto tempo. In ogni articolo, dal primo, risalente agli anni delle superiori, all’ultimo di qualche giorno fa, e ancora più ferocemente con la scrittura dei libri, esiste e si alimenta il mio senso di inidoneità. Una sorta di terrore che non ho alcun pudore a confessare. (Servono a questo le interviste, giusto? A confessarsi…). Non c’è giorno che non pensi di lasciare la scrittura, ma per fortuna (forse) il richiamo è più forte dell’angoscia.

 Un muro da scalare…

Sì, mi sento inadeguata e mai all’altezza. Per questo mi sono specchiata nei tentennamenti della Plath, sebbene leggendola è davvero difficile condividere i suoi timori. Restituisce bellezza e non ne è consapevole. Le sue opere tirano dentro il lettore. A me è capitato, e dopo aver terminato la lettura dei suoi libri ho dovuto prendere una pausa. Il capitolo a lei dedicato si è scritto da solo in una manciata di minuti.

 E poi arrivi a Maria Schneider, sulla quale capovolgi l’interpretazione e la lettura comune affermando che non è stato Bertolucci a darle visibilità, ma esattamente il contrario.

Ho visto tutti i suoi film e riguardato più volte Ultimo tango a Parigi. Ora, poco importa che non lo consideri il capolavoro di Bertolucci, perché ritengo che nessuna altra attrice avrebbe potuto sostituirla. Lei è il film poiché è nel film, completamente dentro la pellicola e la pellicola, in quel momento, è la vita, la sua. Talmente sua… da condizionare in maniera considerevole la sua esistenza futura. C’è la freschezza di una diciannovenne, al contempo la sapienza di un’attrice, ci sono i suoi riccioli, un visino che ti porti fuori dal film per giorni, un corpo perfetto. Ma la mestizia del film è quella della Schneider; l’incapacità di sottrarsi ai dettami del film che non è più finzione ma vita. Ultimo tango a Parigi non ha alcun senso senza Jeanne/Maria. Neanche Brando arriva alle vette dell’attrice poiché lui è nel film e non nell’esistenza. Maria Schneider è il corpo votivo e sacrificale dell’arte cinematografica.

 Corpo e carne che fanno irruzione violenta in alcuni capitoli, come in quello su Clarice Lispector, dove rammenti che c’è sempre un «fare artistico che nasce insieme al crepitio della carne»

La Lispector è una scrittrice carnale e le sue parole sono i vocaboli di un corpo. Per me la conoscenza del proprio corpo è l’elemento indispensabile. Si parla di scrittori di testa, altri di pancia; ecco, qualora riuscissi a definirmi una scrittrice, mi definirei una scrittrice carnale. Scrivo con il corpo e con i sensi che mi rimanda. In fondo, il rapporto con la parola è un rapporto erotico. C’è il corteggiamento, il primo approccio all’idea, poi quell’idea prende forma in una sagoma, la sagoma in una creatura con la quale stabilisco un rapporto di puro erotismo. La penna è il mio corpo in piena, nervoso, rilassato, avido e voglioso… e il mio corpo è il mio cuore.

 «Ventritré storie per mancare la vittoria». Questo è il sottotitolo che hai scelto e che da il senso di vite incompiute, di percorsi interrotti…

Non si tratta di perdenti, al contrario. Tuttavia quasi tutti sono descritti da una forte vocazione al fallimento. Vocazione innata in alcuni, coltivata in altri  e fatta disciplina quasi per ognuno di loro. Salvador Dalí, per fare un esempio, è da sempre considerato un vincente. Ma sin dall’infanzia si scorgono i segni di una inclinazione tutta nel verso di un naufragio. Poi, nel suo caso, la genialità è più forte della disposizione.

C’è qualche nome non conosciutissimo al grande pubblico come Leonor Fini.

Di Leonor Fini si possono solo ammirare le opere, il resto arriva in seguito. Come per la scrittura carnale, c’è una pittura che viene dal corpo. La Fini è corpo pulsante in pittura. Sono pennellate di orgasmi femminili: multipli e incontenibili.

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Hai poi disegnato i contorni di tre personaggi come Syd Barret (Pink Floyd), Franco Califano e Bruno Lauzi che paiono non aver niente in comune. C’è forse la volontà di marchiare con dei volti e con la musica il contrasto tra apollineo e dionisiaco, tra grazia e trasgressione?

L’Apollineo è nei loro versi quanto il Dionisiaco è nella loro vita. Sono entrambi caratteri che contraddistinguono una rivolta al mondo musicale, ai salotti dell’industria discografica, e innanzi tutto a loro stessi.

E cosa c’entra Lauzi?

Gli eccessi di Barrett, Califano e la Joplin sono presenti anche in Lauzi, ma si manifestano in maniera diversa. In ognuno, sebbene con segni differenti, la chiave di violino è nell’autodistruzione. Ma poi il pentagramma prende a suonare bellezza, le parole sono al servizio di un incanto confinato fuori dalle loro esistenze. Il grido di Janis Joplin è un lamento… è struggente e doloroso. Ma è la bellezza a essere dolorosa e quanta più ne contieni tanto sarà duro il lavoro per scontarla. A volte non basta una vita intera.

Da poco è passato il centenario della nascita di Ingmar Bergman (14 luglio 1918). Di lui scrivi: «Bergman è la regia, la scrittura e la macchina da presa. Il cineasta che nella completezza si fa scuola».

Bergman è il mio primo amore universitario. Dopo un anno di Scienze politiche, mi decisi finalmente a passare a Lettere moderne. Il primo esame fu sul suo cinema. Una decina di libri da studiare e quaranta film da visionare. Nonostante fossi cresciuta in una famiglia di cinefili, Bergman in quel momento rappresentò la scoperta del cinema. Cinema come estetica, stile, macchina, luci, ombre. Entravo in un mondo nuovo, quello della macchina da presa. Bergman è un autore cinematografico completo. Conosce la scrittura, si forma su Strindberg e la sua opera è una ricerca continua di perfezione del mezzo.

Perfezione alla quale sempre anela ma intanto, nel privato, si strugge e si interroga con frenesia e ossessione.

Una perfezione che non riesce a trovare dentro se stesso a causa del continuo conflitto con Dio, ma che sa restituire allo spettatore. Il tormento diventa stile. Restai impressionata da Persona, una pellicola del 1966: sperimentazione, inconscio, vita e strutture filmiche si fondono in una grandissima opera d’arte. Si tratta di un’opera che anche oggi conserva il carattere sperimentale. Credo che molti cineasti abbiano un debito d’amore con il regista di Uppsala.

 

In questo tuo viaggio ne hai ‘incontrati’ tanti, ma come vorresti scrivere? Hai un modello?

Vorrei scrivere come penso di scrivere quando non scrivo. La notte (conosco bene la morsa dell’insonnia di Cioran) guardo le parole accordarsi garbatamente tra loro in una frase, un racconto, un verso, finanche a comporre un romanzo. Le osservo e sono pronta per scriverle, ma poi l’indolenza di chi tenta di dormire vince sulla volontà di appuntare la visione e il giorno dopo è speso nello sforzo di ritrovarle. Vorrei scrivere come me, ma molto meglio di me. Perdere la paura, l’incessante senso di inadeguatezza di cui sopra e fuggire da una prigione che ho costruito da sola.

Ed è faticoso scrivere ma ancor più tortuoso pubblicare.

Anche per questo vorrei ringraziare Claudio Chianura, un editore vero. Uno che non usa risposte automatiche; ti legge e decide. Mi sono affidata e fidata completamente, ne ho apprezzato la grande preparazione e soprattutto la comprensione (pazienza?) verso le mie titubanze, il tutto in un clima di piena libertà creativa.

 

 

 

 

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