Il posto delle fragole e del tempo perduto

Il posto delle fragole è anch’esso il racconto di un viaggio fisico, ma in macchina. Il vecchio professore Isak Borg (stesse iniziali di Ingmar Bergman, anche se il regista parlerà di coincidenza) dovrà recarsi a Lund per festeggiare il giubileo professionale. E dunque, parte da Stoccolma, in compagnia della nuora Marianne.

Egoista, rigido nelle convinzioni e arido nelle relazioni affronta un itinerario che diventerà ben presto un pellegrinaggio verso i luoghi della memoria personale; per riscoprirli e, se possibile, impadronirsene, dopo averli apparentemente cancellati per l’intera vita. Se il cavaliere de Il settimo sigillo guarda al futuro, il vecchio Isak scruta dentro di sé e volge lo sguardo al passato.

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La vicenda prende il via con un incubo. Scaraventato in una città anonima, sperimenta non solo la paura della morte ma anche uno spazio senza tempo richiamato dagli orologi senza lancette, quello nel suo taschino e quello in strada. Elementi che fissano l’istantaneità dell’eterno quasi con un taglio da pittura surrealista. Ed ecco perché sceglie come mezzo di locomozione per quel viaggio la macchina e non l’aereo («In un viaggio in auto tra Stoccolma e Lund l’anziano professore Isak Borg riconsidera la sua vita. Chi può dimenticare tali immagini?» dirà Woody Allen). Nell’incubo vaga «tra strade deserte e case in rovina» e assiste a uno strano corteo funebre senza nessuno. Dal carro si stacca una ruota e dal lato poste­riore cade una bara che all’impatto col terreno si apre. Borg si avvicina e in quel cadavere che lo tira a sé riconosce la sua figura.

Alla nuora Marianne racconta di questo strano sogno che intuisce essere lo stilema di un malinconico viaggio di vita: «è come se volessi dire a me stesso qualcosa che non voglio ascoltare da sveglio (…) che sono morto pur essendo vivo». Cognizione assoluta tra ciò che sarebbe potuto essere e non è stato; un giardino, o per meglio dire, una fitta selva di rimpianti e occasioni perdute con qualche gradevole ricordo ma che nell’insieme non gli fanno più percepire la frattura tra reale e immaginario. Perché il tutto è segnato dai continui salti tra la verità di quel giorno e le immagini oniriche; gli episodi tristi che affollano il viaggio in macchina e quelli riassorbiti nel sogno. Un rimbalzare continuo tra la realtà, frutto di fantasia e lo spaesamento dell’esistenza concreta che nel sogno lo porta a rivivere in maniera mortificante l’esame di Stato, da esaminando e non da esaminatore. Una vicenda lancinante. Verrà infatti definito ‘incompetente’ dall’esaminatore il quale focalizzerà il suo j’accuse sull’inadeguatezza di Borg a custodire e curare le relazioni umane: «Lei è accusato di altri errori, piccoli ma non per questo meno gravi: indifferenza, egoismo, incomprensione».

Una sola giornata, dalla mattina alla sera, è più che suf­ficiente per scandire le tappe rivelatrici del silenzio di Dio e di una spiritualità assente eppur ricercata. Ma anche della incomunicabilità tra persone, con la persistente asprezza del vecchio Borg nei confronti degli altri di cui, però, prende progressivamente consapevolezza. Nella prima scena, chino sulla scrivania, si sente la sua voce fuori campo che apre il film in questo modo: «I nostri rapporti con il prossimo si limitano per la maggior parte al pettegolezzo e a una sterile critica del suo comportamento. Questa constatazione mi ha lentamente portato ad allontanarmi dalla cosiddetta vita sociale e mondana. Le mie giornate trascorrono in solitudine e senza troppe emozioni». Concetti asciutti, forse perentori, di sicuro laconici ma più potenti del semplice esergo usato spesso all’inizio dei libri; perché qui c’è qualcosa in più. C’è lo svelamento di una maschera sociale e forse anche di un comodo rifugio lontano dalle complicate vicende dell’esistenza umana.

Percezione segnalata con cinica severità anche da Marianne che, grazie al viaggio, trova finalmente l’occasione per rimproverargli quella asprezza nelle relazioni che è anche causa di litigi con un marito che tanto rassomiglia al padre: «Lei non è altro che un vecchio egoista. Non ha riguardo per nessuno e in vita sua non ha ascoltato che se stesso. Si cela dietro una maschera, un paravento di bonarietà e di modi molto raffinati, ma è solo un perfetto egoista. Anche se tutti la definiscono ‘l’amico dell’umanità’, noi che la conosciamo da vicino sappia­mo chi è, e non ci può ingannare».

Uno svelamento doloroso ma franco che quasi non sorprende il vecchio Borg. Ognuno di noi, nella profondità della propria coscienza, ha nozione del carattere mistificatorio delle maschere quotidianamente indossate. E Borg non dissimula. Così come non dissimula Bergman che, a differenza di altri suoi film, non si abbandona a mille allegorie. Gli snodi cruciali sono pochi, evidenti e tutti decrittabili intorno alla potenza delle immagini e al significato di quel posto delle fragole che non è solo una sosta, una deviazione dal percorso originario. Perché quando il professore decide di ritornare nei luoghi dell’infanzia, sa che sta per scoperchiare l’involucro che teneva sigillato l’abisso. Consapevole di rimuovere quella coltre di cinismo, grazie alla quale aveva furbescamente occultato per un’intera esistenza emozioni, sentimenti, dispiaceri, gioie; ma in quell’atto, oltre all’azzardo, c’è anche la malcelata convin­zione di una flebile redenzione.

Il vecchio posto delle fragole selvatiche non è solo il luogo in cui insieme alla cugina Sara, ai nove fratelli e ai genitori aveva villeggiato fino ai vent’anni. Non è solo il giardino dell’infanzia e dei profumi perduti. Attraverso le increspature squarciate dal personale ricordo di quel luogo verranno fuori anche le incrinature di una società svedese che, in quel perio­do, iniziava a tendere la mano alla modernità; a guardare con favore all’individualismo come configurazione esasperata del successo personale e professionale, e perciò sempre più refrattaria alle complesse problematiche interne alla famiglia tradizionale, e a distaccarsi da una religiosità che oramai si andava già sfibrando.

Quest’ultimo tema, ricorrente nella poetica di Bergman, sintetizzabile anche nei pochi attimi di dialogo che intessono i tre giovani caricati in macchina lungo il tragitto: l’ateo Viktor, studente di medicina, Anders, studente di teologia e Sara, fidanzata di quest’ultimo e nelle fattezze del tutto simile a quella cugina di cui durante l’infanzia si era innamorato il professore. In poche battute riescono ad esplorare tutto l’itinerario di una religiosità sempre conflittuale ma che Bergman, pur identificandole in coordinate troppo sommarie, non le banalizza. Il tema della morte di Dio è ricorrente e perciò di questo dialogo ne riportiamo qualche breve cenno.

La ragazza, rivolta al professore, dice: «Anders diventerà pastore, e Viktor medico».

Viktor: «non posso capire come un uomo moderno possa fare il pastore. Anders non è un perfetto idiota».

Anders: «Lascia che ti dica che il tuo razionalismo è una incomprensibile insulsaggine. E neanche tu sei un idiota».

Viktor: «Secondo me, l’uomo moderno guarda in faccia la propria insignificanza, e crede in se stesso e sulla propria morte biologica. Tutto il resto è privo di senso».

Anders: «E secondo me l’uomo moderno esiste solo nella tua fantasia. Perché l’uomo guarda alla propria morte con orrore, e non può rassegnarsi alla sua insignificanza».

Viktor: «La religione è come l’oppio per i malati».

Già, perché per molti, Il posto delle fragole è il capolavoro autobiografico di Bergman che lo gira quando non ha ancora compiuto quarant’anni ma continua a lacerarsi nei personali dilemmi, in special modo religiosi. E forse lo è perché riesce in maniera sublime a mediare tra le aspirazioni del regista che non di rado dissemina e infittisce lungo il percorso dei suoi film simbolismi e allegorie e la pretesa del pubblico di non perdersi in mille rivoli e avere, al contrario, ben chiari gli indirizzi interpretativi. Autobiografico anche perché la maschera piran­delliana utilizzata dal professore Borg sembra la stessa adottata a forza dal piccolo Bergman che, figlio di un pastore luterano, visse gli anni dell’infanzia con malcelata inquietudine[1].

C’è poco altro da aggiungere alle sequenze che si susse­guono con coerenza narrativa seppur nel rimbalzo continuo tra realtà concreta e onirica. Per dare sollievo alla sofferenza e ai tormenti l’umanità dovrebbe dimensionarsi nella cura delle relazioni. Non c’è altro da fare. Rintracciarle in quel boschetto che circonda la vecchia dimora di famiglia, elementare allegoria della gioventù e della primavera passata, e poi mai più ab­bandonarle. È lì la verità della vita. A ricordaglielo è il nuovo incubo.

La cugina Sara, in un impossibile salto temporale (lei giovane, lui vecchio), gli mostra uno specchio e lo invita a guardare nell’abisso della coscienza: «Ti sei guardato nello specchio Isak. Lo hai mai fatto? (..). Come professore dovresti saper individuare le cause del dolore. Ma non ci riesci perché sebbene tu conosca tante cose, in realtà, non sai niente».

Il professore afflitto non può che ricavarne ulteriore tristezza. Quando di sera farà ritorno a casa, la catarsi pare compiuta. Spogliatosi di ogni mendace sovrastruttura, compie il suo percorso intimo. Sembra quasi lasciare da parte la malinconia, compagna costante della sua esistenza, per far posto a un sentimento nuovo e a un’impercettibile speranza. Ma è una conciliazione con la vita avvertita più dallo spettatore che mostrata nei volti dagli attori. In questo caso Borg non deve scappare da tutto come Alexander Supertramp in Into the wild ma guardare indietro nel fondo oscuro del suo passato; perché è lì la risposta all’inquietudine. Il cinico Borg (come suo figlio Evald) viene salvato solo dalla speranza, dalla comprensione e dalla disponibilità verso gli altri. Non deve più fuggire da se stesso. Lo spaesamento è superato dall’amore, dalle relazioni familiari; insomma, dai più nobili sentimenti umani. La malinconia struggente e l’incursione nella faticosa opacità di una realtà svelata dal sogno possono diventare catarsi.

Nel finale il professore sembra trasformato e il suo sorriso, seppur accennato, è liberatorio; segnale di chi si è riappacificato col mondo intero. A casa, nel letto, è forse un’altra persona: «quando durante la giornata sono stato preoccupato o triste, per calmarmi di solito cerco di pensare ai periodi felici dell’infanzia. E così feci anche quella sera».

Fa intendere che sta per lasciare la terra. La sua immaginazione gli fa rivedere l’altra parte del fiordo dove sono i genitori che lo salutano, quasi un invito a raggiungerli. Ma ora può finalmente guardare in faccia la morte da una prospettiva diversa: circostanza che non capiterà più nei film successivi di Bergman così come non era capitato in quelli precedenti perché Il posto delle fragole rimarrà forse una eccezione. La malinconia non è vinta del tutto, ma diventa complice di una rinnovata visione dell’esistenza e chiavistello per varcare con meno diffidenza la distanza tra lui e l’umanità.

[1] «La famiglia di un prete vive come su un vassoio, senza alcuna protezione dagli sguardi estranei. (…). Forgiai una personalità esteriore che aveva ben poco a che fare con il mio vero io. Non riuscendo a tenere separate la mia maschera e la mia persona, ne risentii il danno fin nella vita e nella creatività dell’età adulta. A volte dovevo consolarmi dicendo che chi è vissuto nella menzogna ama la verità», I. Bergman, Lanterna magica, Garzanti, Milano 1987, p. 135.

BRANO TRATTO DA ‘IL CINEMA DELLE STANZE VUOTE’

di Isabella Cesarini e Luigi Iannone

(https://www.scuoladipitagora.it/catalogo/elenco-dei-titoli/filosofia/il-cinema-delle-stanze-vuote-dettaglio)

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