IMG_6702“Sì, ho trasgredito perché non è stato Dio e nemmeno la giustizia degli dei a stabilire questa legge e mai avrei pensato che il tuo potere fosse così grande da cambiare le leggi non scritte, quelle che esistono da sempre”. 

Eccomi spettatrice della mia tragedia preferita. Sui gradoni di un teatro del 440 avanti Cristo:  l’ampia scalinata ha attraversato i secoli e domina la vallata di Segesta.

Dal tramonto all’inizio della notte va in scena Antigone, protagonista dell’omonima tragedia di Sofocle, il drammaturgo più famoso e IMG_6692“più completo” del V secolo. Il periodo aureo della storia dei nostri avi quando tutto il popolo greco usava andare a teatro per una “finalità catartica”, ossia per purificarsi, vedere rappresentate le tragedie umane e cercare così di comprenderle.

Antigone è figlia di Edipo, assieme alla sorella Ismene. Ha anche due fratelli, Eteocle e Polinice, appena morti in combattimento. Quest’ultimo, per volontà del re Creonte, “non merita degna sepoltura perché si è comportato da nemico verso la città”. Il suo cadavere verrà lasciato sbranare da uccelli e animali e guai a chi si opporrà.

Ma Antigone non accetta il diktat del suo sovrano, non vuole obbedire a regole contro natura. Sceglie, al contrario, di rispettare le “leggi non scritte, quelle da sempre esistite”. E seppellisce suo fratello (“santo è il mio crimine”). Sa che dovrà pagare questo gesto con la morte inflittagli da Creonte ma soffrirebbe di più a non rispettare le leggi eterne.

Si capisce che non si tratta del volere dei capricciosi dei e che non c’entra neppure l’ineluttabilità del destino (quello che aveva condannato alla sofferenza sul padre Edipo). Antigone si richiama a una volontà più alta, eterna.

A Creonte che afferma che “nella patria sta la salvezza di tutti noi e che chi va contro la patria non avrà l’onore di una degna sepoltura e non potrà essere compianto”, Antigone risponde: “Sono mortale senza bisogno di un decreto tuo: se avessi lasciato il corpo generato da mia madre senza sepoltura, allora sì che avrei sofferto. Tutti direbbero che la mia condotta è giusta se la paura non li bloccasse…”.

Infatti, la città intera condivide la decisione della giovane ma nessuno ha il coraggio di dichiararlo.

Antigone è sepolta viva e Creonte, accecato dall’affronto, fa togliere i resti della dignitosa sepoltura, aromi e terra, sistemati su Polinice, perché per lui “quel corpo è indegno”. “Tu sei certo che fra i morti sottoterra sia questa la pietà?” replica lei.

Neppure Emone,  figlio di Creonte e promesso sposo di Antigone, farà cambiare proposito al sovrano. “La città ti teme e piange la morte della donna, da ogni parte si sussurra che dare una tomba è un gesto di pietà che andrebbe ricompensato a peso d’oro. Non sei l’unico depositario della verità…
Cedi, ti prego. Un uomo infallibile dovrebbe conoscere le ragioni del mondo ma questo è impossibile e un uomo saggio sa cambiare idea”.

Inutile. Creonte non arretra.

Soltanto la profezia del vecchio indovino Tiresia lo porterà a ricredersi (“cedi alla forza di quel corpo, la città è sopraffatta dall’odio”). Creonte teme che le grandi sventure presagite si avverino e cerca di rimediare ma ormai è troppo tardi.

Il figlio si toglierà la vita alla vista dell’amata impiccata nella sua prigione. E la sposa di Creonte farà altrettanto.

Coro: I presenti lo dicano agli assenti. Creonte torna sui suoi passi per paura. Di quali mali atroci è causa l’umana follia…

Condivido con voi l’insegnamento di questa antica tragedia, più attuale che mai, rappresentata al Calatafimi Segesta Festival (regia di Livio Galassi, versione di Roberto Lerici) e auguro a tutti voi un buon agosto.

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