Al confine del rumore, proprio all’inizio della strada, c’è l’hotel. Dentro aspetta Don DeLillo. Dicono, ed è vero, che se vuoi ascoltare la voce del secolo americano devi leggere Underworld, o perlomeno Rumore Bianco, Libbra (ricostruzione tra storia e fantasia dell’assassinio di Kennedy, visto dalla parte di Oswald), Americana. È lui, l’ultimo patriarca del grande romanzo americano, anche se ha il cognome abruzzese, se è cresciuto nel Bronx di Jack La Motta, lì dove approdarono gli ultimi emigranti, dove ancora si parla italiano e le facce o i dialetti non hanno il tono da cartolina taroccata di Little Italy né la lingua bastarda e perduta di Broccolino. DeLillo è il racconto dell’America che ha paura della morte e crede nell’immortalità. È quel paranoico senso di pericolo che non sai bene cosa sia o da dove arrivi. È l’identità americana narrata attraverso i suoi frammenti, le sue scorie, la spazzatura di oggetti consumati in fretta, come se il tempo e la storia della società di massa fosse scandita solo dai suoi rifiuti. Ed è lì che trovi il senso e l’interpretazione di ciò che siamo stati. È la partita di baseball, con cui si apre Underworld, tra i Giants di New York e i Dodgers di Brooklyn, 3 ottobre 1951, nono inning, l’home run di Bobby Thomson e la palla che vola in tribuna, «Non è un bel lancio da battere, alto e interno, ma Thomson ruota su se stesso e colpisce la palla con un colpo fortissimo dall’alto in basso e tutti, tutti, stanno a guardare». È David Bell, il protagonista di Americana, che alla domanda: cosa pensi di fare ora nella vita? Risponde: uscirne vivo. È il futuro che arriva ed è già vecchio, obsoleto. Quella sindrome di cui soffre Eric Packer, il giovane miliardario protagonista di Cosmopolis: «Lui è sempre avanti, pensa oltre ogni novità \ Le cose si logorano con impazienza fra le sue mani. Vuole essere in anticipo di una civiltà rispetto a quella attuale». Le parole di DeLillo sono il suono di una mazza di frassino che colpisce la pallina. Non ama parlare di sé, ma non ha neppure la faccia di quel burbero vecchio di cui si racconta. Lo scrittore che vive da qualche parte nel New Jersey, ma non si fa vedere: poca biografia, poche interviste, poche foto. Quello che per un po’ di anni ha fatto un lavoro che non gli piaceva, copywriter in un’agenzia pubblicitaria. «Poi – dice – mi sono imbarcato nella mia vera vita». Scrivere. Raccontare l’America. Riconoscerla. Trovarla. Lui che per anni l’aveva vista e sognata solo dal Bronx. North Bronx, dalle parti di Arthur Avenue, lì ci sono i mercati generali. Se stai a New York da qualche mese e passi da quelle parti senti nell’aria una strana dissonanza, c’è qualcosa di familiare eppure di estraneo, fuori luogo. Passa qualche minuto, poi capisci. Tutti parlano italiano. L’America si dissolve, diventa lontana…

«È lì che sono cresciuto. A due passi da quel mercato. È il Bronx italiano. Ricordo le strade strette. Un quartiere rumoroso, affollato, meraviglioso, sempre in movimento. Tutti correvano, tutti avevano qualcosa da fare. Attività di ogni sorta, c’era chi vendeva, chi comprava, chi rubava. Ricordo il coraggio, il lavoro e la voglia d’integrarsi di mia madre e di mio padre. Erano abruzzesi, di Montagono, vicino a Campobasso…».

Molisani, allora.

«Certo, certo. Ma allora il Molise non c’era. Era tutto Abruzzo. Stiamo parlando degli anni ’30. Io sono del 1936 e sono nato a New York».

Ha mai visto Montagono?

 «Ci sono stato 15 anni fa, con mio padre».

Come mai non ha imparato l’italiano?

«Non volevano i miei genitori. Dovevo crescere come un americano. Era meglio così, integrarsi e lasciare alle spalle il resto. Comunque, un po’ lo parlo. E lo capisco. Ma non ho un talento per le lingue, a parte la mia, e faccio molti errori».

 Non si sente italo-americano?

«Nel Bronx era una domanda che non ti facevi. Non ci pensavi. Diventavi italiano solo quando ti capitava di fare a botte con altre bande, magari gli irlandesi».

 Come in tanti film, il Bronx violento…

«Sì, da adolescente avevo a che fare con la violenza tutti i giorni. Fatti di sangue e vere e proprie esecuzioni. Era la mafia. È strano, poco tempo fa ho rivisto i miei amici di un tempo. Tutti avevamo gli stessi ricordi e tutti legati a fatti di violenza. A quel tempo non sapevo neppure cosa fosse la letteratura. Ho cominciato a leggere a 16-17 anni. Capii che era la strada per uscire dal Bronx».

In Underworld narra per un’ottantina di pagine l’incontro tra i Giants di New York e i Dodgers di Brooklyn. Per chi tifava?

«Per gli Yankees, naturalmente. Sono nati al Bronx». Anni ’50, quali erano i miti di un ragazzo di origine italiana del Bronx? «L’America».

 Cioè?

«Il mito che ci fosse un’America al di là di quelle stradine strette e affollate. Un’America che io un giorno avrei scoperto».

L’ha trovata?

«Quando sono uscito dal Bronx. Ci ho messo tempo. E anche i miei primi racconti parlavano ancora di quelle strade. Poi, con Americana, ho voltato pagina. Era il 1971».

 E DeLillo è diventato la voce dell’America. Questa voce rauca e profonda. Con i suoi cori polifonici, frammenti di suono e di rumore che arrivano dalla mischia, dalla folla, segmentati, catturati e poi lasciati andare. E arrivi all’incipit di Underworld: «Parla la tua lingua, americano, e c’è una luce nel suo sguardo che è una mezza speranza…».

 «È vero, per me è importante tutto questo, raccontare la voce dell’America, anche le note che è difficile prendere, anche ciò che non vorresti raccontare. Per questo ho pensato che i miei romanzi fossero intraducibili. E mi sono stupito quando qualcuno ha deciso di farlo».

 La sua America è ossessionata dal futuro. I suoi personaggi smaniano per arrivarci il più presto possibile. E poi si accorgono che già ieri è terribilmente vecchio…

«È una condanna. Gli americani sono convinti di averlo inventato loro il futuro».

Americana, Rumore Bianco, Libra, Underworld, fino a Cosmopolis: c’è sempre una minaccia sottile e inquietante che dà ritmo al romanzo. C’è qualcosa all’orizzonte che prima o poi ti cadrà addosso. Cos’è?

 «È difficile anche per me capire cosa sia. Ho sempre associato il romanzo alla morte. E quando scrivevo avevo sempre paura di morire prima di completare il romanzo. Poi, questi timori, sono scomparsi. D’altra parte mi è passata anche la paura di volare, di prendere l’aereo. Non c’è un motivo. Forse s’invecchia».

Altro mito, il denaro. In Cosmopolis si parla soprattutto di soldi…

«Il romanzo si svolge tutto in una giornata. C’è un miliardario che viaggia, a caso, per le strade di New York. È ossessionato da una scommessa finanziaria sullo yen. E sa che c’è qualcuno che vuole ucciderlo. Ma questa non è una giornata qualsiasi. È, per me, l’ultimo giorno di un’era: la fine della guerra fredda, l’inizio di un’epoca segnata dal terrorismo. Praticamente sono gli anni ’90. Solo che nel romanzo si concentrano tutti in un giorno. Qui il tempo scorre molto più velocemente. Lo vediamo accelerato. Il tema di questo decennio è appunto il denaro, l’arte di far soldi. I greci avevano una parola per definirla. Chrimatistikós. Ma come dice un mio personaggio dobbiamo renderla più flessibile. La ricchezza è diventata fine a se stessa. Ha perso la sua qualità narrativa, come è accaduto alla pittura tanto tempo fa. Il denaro parla a se stesso. La corsa tra denaro e tecnologia ci ha fatto credere che tutti stessimo vivendo nel futuro».

E invece?

 «La prima cosa che è successa, nella primavera del 2000, è che i mercati sono crollati. E il resto poi lo sappiamo. Le torri, lo scontro con l’altro da noi. Il futuro ci ha riportato indietro. I potenti, purtroppo, pianificano la loro distruzione, soffrono del complesso di Icaro».

 Quando si cita Don DeLillo spesso si aggiunge: padre della letteratura post-moderna. Visto che le attribuiscono la paternità, confessi, almeno lei sa cos’è il post-moderno?

«È una definizione che mi spaventa. Io sono solo un romanziere, uno che aspetta la prossima frase».

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