Utopia o anti-utopia, ordine o libertà, sicurezza o rischio? Il Novecento doveva dare una risposta a queste domande. Ci ha provato, con le sue guerre mondiali, con le sue ideologie, con il pendolo della politica che oscillava tra Stato e individuo. Ci ha provato, portando i suoi sogni allo zenit, e massacrandoli. Ci ha provato, con le sue terze vie, che sono apparse poi alla fine troppo banali o poco affascinanti o incapaci di rispondere a quel bisogno di assoluto o di nulla che ancora ci perseguita. Ci ha provato il Novecento, senza riuscirci, accontentandosi di dire: comunque siamo sopravvissuti e non è poco, ma lasciando la domanda, aperta, ai posteri, ancora ingabbiati nel dialogo tra il Grande Inquisitore e il Cristo, quella leggenda che Fëdor Dostoevskij lascia raccontare a Ivan Karamazov.

Ivan confessa al fratello Alësa di aver scritto un poema. Siviglia, Sedicesimo secolo, Inquisizione, Cristo decide di tornare nel mondo per riportare la Chiesa all’interno del Verbo. Ancora una volta servono i miracoli, qualcuno lo segue, qualcun altro lo crede un impostore, la legge decide la sua sorte. L’inquisitore, che ne riconosce l’origine divina, ordina comunque il suo arresto e lo condanna al rogo. Nella notte il gesuita si reca dal prigioniero e spiega i motivi della sentenza. Cristo – dice – non ha il diritto di interferire con le scelte della Chiesa, a cui ha trasmesso il suo potere e la sua autorità. Cristo ha sbagliato, si è illuso sul conto degli uomini. Ha concesso il libero arbitrio, la possibilità di scegliere. Ha proposto una religione adatta esclusivamente a individui superiori, capaci di addossarsi la fatica della libertà. «Nessuna scienza – argomenta il vecchio inquisitore – darà loro il pane finché resteranno liberi, e alla fine non potranno che deporre la loro libertà ai nostri piedi e ci diranno: rendeteci pure schiavi, ma sfamateci. Finalmente capiranno da soli che libertà e pane terreno a piacimento per tutti sono cose fra loro inconciliabili perché mai e poi mai sapranno dividerlo fra loro! (…) Io ti dico che non vi è per l’uomo affanno più grande che quello di trovare al più presto qualcuno a cui rendere il dono della libertà che quel infelice ha avuto nascendo. Ma si impossessa della libertà degli uomini solo chi pacifica la loro coscienza. Con il pane ti si offriva una bandiera inattaccabile: dagli il pane e l’uomo ti si inchinerà poiché non vi è nulla di più indiscutibile del pane… Anziché impossessarti della libertà umana, tu l’hai potenziata e hai oppresso per sempre con il fardello dei suoi tormenti il dominio spirituale degli uomini. Tu hai voluto il libero amore dell’uomo affinché ti seguisse liberamente, ammaliato e conquistato da te…».

Felicità e libertà per il Grande Inquisitore sono inconciliabili: l’uomo deve decidere se percorrere la prima via segnata dalla pianificazione, dall’ordine assoluto o la seconda che porta con sé – sempre secondo il gesuita – dolore, imprevisti, caos. Non è un dialogo. Gesù non parla. Non interrompe. Non commenta. Non si ribella. La sua risposta è un bacio. Solo un bacio. È lì, nel 1879, che la letteratura ferma, fotografa, il dilemma umano con cui gli scrittori del Novecento dovranno fare i conti, rovesciando la fame di perfezione di Platone, Moro, Campanella, mostrando la caduta dei filosofi, le crepe di Utopia, i lati oscuri della Città del sole, l’inganno del Grande Inquisitore. In quei mondi che inseguivano la verità, la pace, l’eguaglianza, la felicità oggettiva di tutti i cittadini, al di là dei singoli desideri e delle opinioni, ci si era dimenticati di importare la libertà. O forse, di proposito, ci si era detti: meglio lasciarla dov’è, negli angoli meno accessibili della realtà.

Nel 1932 Aldous Huxley, l’autore del Mondo nuovo, romanzo di chiaro carattere anti-utopico, mette in bocca a Berdjaev questo discorso: «Le utopie appaiono oggi assai più realizzabili di quanto non si credesse un tempo. E noi ci troviamo attualmente di fronte a una questione ben più angosciosa: come evitare la loro realizzazione definitiva? Le utopie sono realizzabili. La vita marcia verso le utopie. E forse un secolo nuovo comincia; un secolo nel quale gli intellettuali e la classe colta penseranno ai mezzi per evitare le utopie e di ritornare a una società non utopistica, meno “perfetta” e più libera». Non sarà così. Non del tutto, perlomeno, perché il Grande Inquisitore è rimasto sulla scena abbastanza tempo per diffondere le sue paure e le sue verità. E se per qualche tempo si è addormentato o eclissato, non è detto che non si svegli o ritorni. Le distopie del Ventesimo secolo svolgono un ruolo da sentinelle, provano a ricordare che l’inquisitore può essere smascherato e dicono: il sacrificio della libertà – in nome della razza, della nazione, dello Stato, della classe, dell’eguaglianza, di Dio o del paradiso, della patria o del denaro o della stessa libertà – è un inganno, perché in cambio non ottieni nulla di ciò che ti è stato promesso. Il teorema del poema di Ivan è falso: rinunciare alla libertà non porta alla felicità. Ma alla consacrazione del potere per il potere.

Quando Orwell fa incontrare Winston Smith con il suo carnefice nelle segrete del Ministero dell’Amore si comprende come il «bene comune» ha confini molto angusti: «“Tu ti rendi conto benissimo come il Partito mantiene se stesso al potere. Ora dimmi un po’ perché ci teniamo così stretti al potere. Quale ne è la ragione? Perché vogliamo il potere? Su, parla!” aggiunse, mentre Winston rimaneva zitto. Ma Winston non disse niente ancora per un minuto o due. Una sensazione d’immensa stanchezza l’aveva invaso. Un debole e folle lampo d’entusiasmo tornò nello sguardo di O’Brien. Winston sapeva già quel che O’Brien avrebbe detto. Avrebbe detto che il Partito non ricercava il potere per suoi propri fini, ma soltanto per il bene della maggioranza; che ricercava il potere perché gli uomini in massa sono deboli e vili creature che non sanno sopportare la libertà o rendersi conto della verità e debbono essere governate e sistematicamente ingannate da altre persone che siano più forti di esse; che per l’uomo c’è una sola alternativa: di scegliere, cioè tra la libertà e la felicità, e la maggior parte degli uomini tra le due sceglie la felicità; che il Partito era una sorta di tutore permanente dei deboli, una setta che si dedicava a compiere il male in modo da preparare l’avvento del bene, che sacrificava la propria felicità a beneficio di quella degli altri … “Voi ci governate per il nostro bene” disse Winston a voce bassa. “Voi credete che gli uomini non sono capaci di governarsi da sé, e quindi…”. “Questa risposta è stupida, Winston, proprio stupida!” disse. “Stupida e lo sai benissimo; m’aspettavo di meglio da te”. Lasciò andare la leva e continuò: “Ora risponderò io stesso alla mia domanda. Sta’ a sentire. Il Partito ricerca il potere esclusivamente per i suoi propri fini. Il bene degli altri non ci interessa affatto; ci interessa soltanto il potere. Né la ricchezza, né il lusso, né una vita lunga, né la felicità hanno un vero interesse per noi ; ci interessa soltanto il potere, il potere puro. Ti dico subito ciò che significa potere puro. La differenza tra noi e le oligarchie del passato consiste in questo, che noi sappiamo quel che facciamo. Tutti gli altri, anche quelli che ci rassomigliano più da vicino, erano tutti vili e ipocriti. I nazisti tedeschi e i comunisti russi si avvicinarono molto ai nostri metodi, ma non ebbero mai il coraggio di dichiarare apertamente i loro motivi, le loro ragioni. Essi pretesero, e forse perfino credettero, d’essersi impadroniti del potere contro la propria elezione e iniziativa, e per un tempo limitato, e che all’angolo della strada ci fosse un paradiso nel quale gli uomini potessero essere liberi e uguali. Noi siamo tutt’altra cosa. Noi sappiamo benissimo che nessuno s’impadronisce del potere con l’intenzione di abbandonarlo in seguito. Il potere non è un mezzo, è un fine. Non si stabilisce una dittatura nell’intento di salvaguardare una rivoluzione; ma si fa una rivoluzione nell’intento di stabilire una dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la tortura. Il fine del potere è il potere. Cominci a capirmi ora?”».

Forse è qui la differenza. L’eroe dell’anti-utopia è l’individuo. L’eroe dell’utopia è lo Stato. Lì, nel 1984 di Orwell o nel Mondo nuovo di Huxley, la realtà, paranoica e burocratica, si svela, lascia cadere la maschera. È una rivelazione. Non ci arrivi, ci sei nato, appartieni a quel mondo, fino a quando ciò che ti appare quotidiano diventa prima stupore, poi insofferenza, rabbia, ribellione desiderio di fuga, presa di coscienza che ciò che stai vivendo è assurdo. È, in qualche modo, un romanzo di formazione. L’eroe, fino ad allora privo d’identità, va alla ricerca di se stesso. Non pensa di immaginare un mondo perfetto, ma si chiede: chi sono? È per questo che la sua rivolta contro il potere non coinvolge mai gli altri, il mondo, la comunità o la massa, ma è un’azione individuale, anarchica. Il romanzo distopico ci racconta la crescita di un personaggio che cerca una via d’uscita dalla sua prigione. Il suo obiettivo è superare un muro, che di volta in volta può essere politico, economico, tecnologico, virtuale, superumano o post-umano. Le età dell’oro e le città radiose sono un’altra storia. Non c’è rivelazione, ma costruzione razionale. L’eroe dell’utopia è un architetto, vede l’isola, le alte muraglie, le torri e i bastioni. Vede il desiderio di chiudere lo spazio. Non supera muri, li edifica.

Un tipo come D-503, il protagonista di Noi, il romanzo di Evgenij Zamjatin, può solo sperare che la situazione cambi e scommettere sul futuro. L’architetto utopico costruisce un mondo che pensa perfetto con il solo intento di rifugiarsi in un passato ideale, immaginato o riscritto. Non cresce, prova a rinascere. E nel farlo si attribuisce un ruolo da demiurgo. Non è l’uomo che cerca se stesso e per farlo deve riconquistare, prima di tutto, la propria libertà. È l’uomo che ha scoperto l’ebrezza di Dio. Ed è un Dio che non s’incarna. Costruisce il mondo, ma non lo vive. Omero nell’Odissea si limita a descrivere il giardino meraviglioso di Alcinoo, dove i fiori non appassiscono mai, ma poi torna alle peregrinazioni del suo eroe. Pindaro allude a una mitica isola degli uomini felici e beati, ma la lascia lontana, come un orizzonte che serve a non corrompere il nostro disincanto. E così fanno Evemero quando ci parla della sua Pancadia e Virgilio nelle sue nostalgie bucoliche o Agostino nella Civitate Dei. Il Rousseau della Nouvelle Eloise, dove descrive la comunità fantastica di Clarens, sulle rive del Lac Leman, ha la buona sorte di non incontrare il suo discepolo Robespierre. Lo incontrano invece i suoi lettori e anche quelli di un autore troppo letto prima della Rivoluzione e cancellato dopo. La sua utopia era diventata in fretta realtà.

 È la storia di Louis Sebastian Mercier e del suo romanzo Anno 2040. Mercier ha descritto la Parigi futura sui progetti di riforma urbanistica, fiscale, sanitaria che circolavano negli anni Sessanta del Settecento. Sogni condivisi da tutta l’intellighenzia riformatrice. Ecco come Sergio Luzzatto spiega – in uno dei saggi raccolti nel primo volume della «grande opera» Einaudi dedicata al romanzo (La cultura del romanzo, pag. 880) – l’eccezionale successo di Anno 2040 e la sua irreparabile sfortuna. «Alla domanda di politica che saliva dal fondo della società francese, la rivoluzione ha risposto con un eccesso di politica: via via che il giacobinismo si è affermato come una sorta di roussianesimo reale anche le cose più ordinarie – vestiti o cappelli, ricette di cucina o pièces di teatro – si sono caricate di implicazioni politiche. La fusione tra pubblico e privato si è trasformata in delirante confusione, e i più edificanti imperativi moralistici hanno dato luogo a innumerevoli abusi morali. Dove trovare la voglia di leggere Mercier dopo il terrore? A chiunque fosse sopravvissuto alla stagione più radicale della rivoluzione, l’immaginazione di un lontano futuro contenuta nell’Anno 2040 poteva ben sembrare una descrizione del recente passato. La Francia prefigurata da Mercier ricordava anche troppo la Francia governata da Robespierre: una società dei divieti, senza mendicanti né prostitute, senza monaci né preti, senza corporazioni di mestiere né commercio estero, senza chef di ristorante né maestri di danza».

 La fortuna dei personaggi utopici è di non crescere in queste isola al di là degli oceani, dello spazio o del tempo. Ci si ritrovano. Sono dei turisti. E appena arrivati, di solito dopo un sogno o un viaggio straordinario, si mettono a descrivere tutto ciò che li circonda, stupefatti. Tutto il loro lavoro è raccattare cartoline. Quei posti, in fin dei conti, non li hanno mai vissuti. L’eroe anti-utopico, invece, è cresciuto lì. Riconosce lo sguardo dei vicini, s’interroga se andranno o no a denunciarlo, osserva le divise e i volti senza luce di chi lo circonda. D-503 registra tutto ciò che accade. Sa che nel Ventinovesimo secolo lo Stato Unico marcisce sotto il Benefattore. I cittadini non hanno nome, non hanno identità e la scienza sembra aver eliminato ogni differenza fisica. Gli uomini sono funzionali a un unico e grande ingranaggio: lo Stato mondiale. D-503 mangia, si veste, sopravvive, ma è stato derubato, come tutti, di ogni gesto spontaneo. D-503 deve accettare il programma ogni giorno preordinato dalla tavola delle ore. C’è un tempo per il lavoro, per il riposo, per lo svago e per l’amore. Il dubbio e la ricerca filosofica sono colpe gravi. Unica preoccupazione dell’uomo-numero deve essere quella di svolgere i compiti che gli sono stati assegnati. È un cittadino di quel mondo, non un turista.

 Lo stesso si può dire di John, uno dei protagonisti di Mondo Nuovo. Loro vedono lo Stato con gli occhi dell’individuo. Il demiurgo no, vede tutto dall’alto. Gli individui sono delle comparse, come i puntini lampeggianti che segnalano il traffico in Sim City. Sono, cioè – come risponderebbe un qualsiasi giocatore di videogame – un problema da risolvere. Eppure i protagonisti dei romanzi distopici sembrano accontentarsi di poco. Basta una domanda per svelare l’assurdità del potere, K. – nel Processo – chiede solo disperatamente di sapere di quale crimine viene accusato. L’agrimensore vuole sapere perché dal castello hanno richiesto i suoi servigi, chi lo ha mandato a chiamare, cosa deve fare. Bussa per un appuntamento. Winston Smith, in 1984, semplicemente s’innamora e scopre l’illegittimità dei tanti divieti con cui si era abituato a convivere. Messo in discussione il primo finisce per registrare l’assurdità di tutto il sistema. John, uno dei protagonisti di Mondo Nuovo, sotto il governo Mustafà Mond ha passato gran parte della sua vita, ne conosce le regole, le ha assimilate, le ha subite. È il frutto di quel «processo Bokanofsky», che seleziona gli individui in base alle mansioni sociali che dovranno svolgere. Fortuna che nel suo mondo c’è anche una riserva di «merci avariate», quella comunità di reietti ritenuti indegni del «progresso» che difendono la propria libertà insieme al diritto di essere infelice. L’ideale dell’eroe anti-utopico è l’esperienza, quello dell’utopia è la perfezione.

Quando Frodo, nel Signore degli anelli, si mette in viaggio sa che comunque vada la sua missione non troverà la contea come l’ha lasciata. È cambiato lui e il mondo che lo circonda. L’oscurità non è solo una parentesi, non permette il ritorno a ciò che c’era prima. L’oscurità ruba ai sopravvissuti e ai posteri i loro sogni, strappa il velo di Maja, frantuma le illusioni, cancella i ricordi idilliaci che ogni civiltà conserva in qualche cassetto della sua storia. Vedi svanire la vecchia campagna inglese e l’America dei padri fondatori, la ville lumière dell’Ottocento francese e le lucciole pasoliniane. Frodo non tornerà più a fumare l’erba pipa. Anche se continuerà a pensarci, come nei giorni della sua avventura, quando il desiderio di tornare a casa era la spinta a compiere la sua missione: distruggere il male perché tutto torni come prima. Tornerà a pensarci senza illusioni, come un’idea che ti fa compagnia e serve come una stella che indica la rotta. Frodo si sente, mentre i giorni passano, un conservatore che guarda al futuro. La contea, come l’abbiamo sognata, non esiste più e forse non è mai esistita. Il signore oscuro è stato sconfitto, magari non per sempre, e l’unica cosa che puoi fare è evitare di svegliarlo. E forse anche Gandalf e Aragorn se ne sono andati, perché questo tempo di mezzo non è più tempo di eroi. E Frodo ha ancora bisogno di tutto il suo coraggio per vivere al tramonto di un’era che ha visto le utopie e le anti-utopie rincorrersi e cadere. Tutto questo con il sospetto che la distruzione dell’anello non sia servita a sciogliere i vecchi nodi. Un po’ perché qualcuno ha cominciato a rimpiangere l’anello e chi ha combattuto contro di lui, forse, ne è rimasto comunque contagiato. Ma questa è un’altra storia e la stiamo raccontando.

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