Non si sa mai da che parte stare quando scoppiano le rivoluzioni. Quello che capita a Gyula Fàtray, ungherese, ebreo, sopravvissuto alle persecuzioni naziste, 46 anni, ingegnere piuttosto frustrato con un posto in fabbrica come responsabile della pianificazione, onestamente non proprio un eroe, è di trovarsi quel martedì di settembre del 1956 sdraiato su un letto d’ospedale, appena operato di emorroidi.

In quei giorni a Budapest c’era un bel po’ di casino. Gli studenti e gli operai avevano appena conquistato Pest e dalla collina Gellert si bombardava che era una meraviglia. La storia comunque la conoscete. Molti di voi avranno letto le cronache di Montanelli e sapete come va a finire. I sogni muoiono all’alba e la libertà finisce sotto i cingoli dei carri armati sovietici. Cosa pensa il nostro eroe, che tanto eroe non è? «Chi aveva fatto la rivoluzione doveva aspettarsi la loro spietata vendetta. Lui si sentì escluso da qualsiasi rappresaglia, perché nemmeno se lo avesse voluto avrebbe potuto unirsi ai rivoluzionari. Mica male finire in ospedale pochi giorni prima di una rivoluzione, restarci finché la rivoluzione viene repressa e trascorrere la convalescenza a casa in santa pace quando scatta la resa dei conti. Il caso gli aveva salvato la vita; non era un merito, solo una gran botta di culo, diciamo».
Solo che quando la burocrazia si sposa benissimo con l’ideologia e gli umani tirano fuori la collezione di meschinità, vigliaccheria e mediocrità dai cassetti di casa e il «tengo famiglia» vince su ogni cosa, non tutto va secondo ragione. Capita, quindi, che il colpo di fortuna di Gyula non serva a nulla e lui finisca tra i colpevoli. La ruota della burocrazia ha sempre bisogno di capri espiatori e l’ebreo con il cognome borghese, ospedale o non ospedale, ha le caratteristiche giuste per essere dato in pasto alla giustizia.
György Spiró è l’autore di Collezione di primavera (Guanda, pagg. 298, euro 18). È un gigante del teatro e del romanzo ungherese. La tragedia spesso si presenta come paradosso, farsa, beffa, stupidità. È questo il sapore delle utopie andate a male. Non falliscono solo per disonestà, brama di potere, mancanza di coraggio, menzogna: cadono soprattutto per idiozia. Il male è tremendamente stupido, questo non significa che non sia più forte di te o spietato o razionale o organizzato. Anzi, la sua ambizione è di essere un orologio perfetto, di controllare tutto, eppure c’è un deficit di intelligenza in tutti i piani di questo potere che si vede onnipotente. Lo Stato burocratico, ideologico e totalitario, in tutti i suoi colori e pensieri, è un Dio sciocco. Ed è per questo che fa più male.
Spiró lo sa. Conosce la stupidità del male e la meschinità degli uomini. Sa che non è facile ribellarsi al proprio destino e che la scelta istintiva è costruirsi delle scuse per sopravvivere. È quello che in fondo racconta in un dramma del 1983: L’impostore. La scena è la Polonia di fine Ottocento che vive sotto l’occupazione russa. Il protagonista è un grande attore, ormai anziano, che arriva nella città di Vilna per rappresentare il Tartuffe di Molière. La domanda, che resta aperta fino al finale, è se questo vecchio attore riuscirà a far rivivere il suo io da artista, il proprio mito leggendario, o sceglierà al contrario la soluzione più comoda: nascondersi. È che Spiró non si fida molto degli intellettuali. Non più, almeno. L’Europa che racconta è vecchia, sfiduciata, chiusa, come un vecchio caffè che teme la concorrenza del futuro e la boicotta.
È come se tutti continuassimo a vivere in un eterno ’56 dove le illusioni muoiono il giorno dopo. Neppure la fine del comunismo ci ha salvato dal nostro letargo. È come se una fata cattiva avesse fermato il tempo e addormentato il mondo. Tutto ciò che resta marcisce. Gli intellettuali dicono che è solo colpa del capitalismo, della sua crisi. Non si accorgono che il letargo nasce dallo Stato, dalla sua burocrazia, dalla sua stupidità, dalla logica di scelte e procedure cartabollate che producono solo cumuli di scartoffie. Il paradosso è che lo Stato nasce per tutelare i deboli e non lo fa. Lo Stato è un paracadute che funziona solo per i furbi e i disonesti. Questo Stato. Magari ce ne sono altri che noi non conosciamo. Il sospetto è che nel 1989 il comunismo è morto, ma ci ha lasciato in eredità un esercito di giudici, funzionari e burocrati.
E noi siamo ancora qui ad aspettare la primavera.

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