Quante sono le storie che si possono raccontare su una scacchiera? Due alla sessantaquattresima meno uno, ossia: 18.446.744.073.709.551.615. Sì, il riferimento è più letterario che matematico, ma in fondo è bello pensare che le storie siano come i chicchi di grano di quell’antica leggenda che racconta la sagacia esponenziale dell’inventore del gioco di re, regine, cavalli, torri, alfieri e pedoni. Si chiamava Lahur Sissa o Sessa, certe voci si perdono o tramutano nel passaparola dei secoli. La storia probabilmente la conoscete, spunta spesso quando si parla di scacchi. Qualcuno dice che siamo in India, altri in Cina. C’è chi parla di un principe e chi di un re o di un imperatore. Poco importa. Di certo c’è che il gran signore fu incantato da questa simulazione strategica e promise qualsiasi cosa Sissa, o Sessa, avesse voluto come ricompensa. Cosa chiedere? L’uomo, da saggio, si accontentò di una cosa modesta. Un chicco di grano per la prima casella, due per la seconda, quattro per la terza, otto per la quarta, sedici per quinta, sempre raddoppiando fino alla sessantaquattresima casella. Il re rise. Il giorno dopo i matematici interpellati dissero che non sarebbero bastati i raccolti di tutto il regno per ottocento anni.
Ne sono passati solo venti, invece, da quando Paolo Maurensig pubblicò per Adelphi La variante di Lüneburg, un romanzo che nel 1993 scalò in fretta le classifiche. Gli scacchi come potere, come destino, come scommessa disumana, come le vite che il comandante del campo di concentramento nazista di Bergen Belsen mette in gioco nella partita infinita contro l’ebreo Tabori. La scacchiera come la tavola del mondo, dove ognuno svolge il proprio gioco e si presenta agli altri con il proprio stile e ogni stile è lo sguardo con cui ognuno di noi affronta la vita. «Come ben sapete, Alëchin sosteneva che gli scacchi sono un’arte, mentre Capablanca li vedeva come pura tecnica; per Lasker, invece, gli scacchi significavano lotta».
Gli uomini invecchiano cercando la mossa giusta, si spostano sperando di andare a donna come prevedibili pedoni, i potenti quando temono di perdere tutto si arroccano o c’è chi preferisce isolarsi nella pace statica del cavallo eterno, c’è chi forza e chi sacrifica, chi raddoppia le torri e chi si accontenta dello stallo o chi da buon riformista sa quando è il caso di prevedere uno Zwischenzug. Per questo Maurensig è tornato a raccontare una storia che ha come trama una sfida di scacchi. È la sfida tra un parroco di un paesino vicino a Bolzano e un anziano signore, che ogni settimana passa quando c’è il mercato, troppo bravo per essere solo un dilettante. Lo straniero infatti si chiama Daniel Harrwitz. Per chi conosce la storia degli scacchi non è un nome qualsiasi. È il commerciante tedesco che girò mezza Europa ottocentesca con l’arroganza e la sfida di chi sa che non troverà qualcuno alla sua altezza. Tanto da prendere il vezzo di dare ai propri avversari un pezzo di vantaggio. Harrwitz era come un pistolero ansioso di capire chi fosse il migliore. Qualcuno di livello lo trovò, ma a nessuno risparmiò il suo sarcasmo. Il povero parroco della storia di Maurensig fu solo la sua vittima finale. L’ultima traversa (Barbera editore, pagg. 96, euro 7,90) racconta, come spesso accade sulla scacchiera, la sfida con l’infinito, la miseria del nostro orgoglio, quel pesante fardello di dover fare prima o poi i conti con un limite che chiamiamo morte, la vanità delle passioni, del vivere, nell’arrampicarci su scale senza fine, nell’essere caduti in un enigma senza soluzioni.
Noi muoviamo gli scacchi, e un’altra mano muove noi e così di mano in mano. È una poesia di Borges, giusto? «Ma anche il giocatore è prigioniero/ (Omar afferma) di un’altra scacchiera/ di nere notti e di bianche giornate». È La scacchiera è quella dove Lewis Carroll muove Alice in Attraverso lo specchio. Alice pedone bianco che dalla casa di partenza raggiunge l’ottava traversa, diventa regina e vince la partita. È la Novella degli scacchi, l’ultimo racconto scritto da Stefan Zweig prima del suicidio. È la nemesi del vecchio Sud che Faulkner cerca in Gambetto di cavallo. È la storia del Re degli scacchi, raccontata da Acheng. La partita per la sopravvivenza di Wang Yisheng che per non impazzire nei campi di lavoro maoisti continua a pensare e giocare un’immaginaria partita contro la rivoluzione culturale. È la pazzia che Nabokov narra in La difesa di Luzin, personaggio imbrigliato in una rete di ripetizioni ossessive, come se l’immobilità del tempo ti costringesse a rivivere sempre la stessa giornata.
Ed è la stessa che si abbatte sui grandi campioni. Morphy smise di giocare a ventidue anni per finire la vita come un pazzo diamante. Steinitz cadeva in stati allucinatori che lo portavano a sfidare Dio, concedendogli il vantaggio di un pedone e della prima mossa. La fuga dal mondo di Bobby Fischer dopo la vittoria a Reykjavík su Spasskij, in quella partita che appare come un simbolo della Guerra Fredda, tanto da interessare e preoccupare Kissinger. Epopea pari soltanto a quella tra il comunista ortodosso Karpov e il dissidente Kasparov, dove i due stili di gioco sono l’emblema dell’eterna lotta tra i caratteri della nazione russa. Fabio Stassi, con uno splendido romanzo pubblicato da Minimum Fax, La rivincita di Capablanca, ci ha riportato qualche anno fa nella Buenos Aires degli anni ’20. È la storia di un’amicizia tradita, quella tra il cubano Capablanca e Aleksandr Aljechin, l’uomo fuggito dalla rivoluzione d’Ottobre e approdato alla corte dei gerarchi nazisti. Disse il russo: «Non so come potrò vincere sei partite con Capablanca ma non so nemmeno come potrà farlo lui».
Vinse Aljechin e non concesse mai la rivincita a Capablanca, che subì l’offesa di una seconda occasione sempre rinviata, come spesso la vita.

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