Nel 1953 non c’era neppure la Rai, ma l’onorevole Giorgio Napolitano sì. Aveva ventotto anni e un posto a Montecitorio come deputato del Pci, accanto a Giorgio Amendola. I due non avevano solo in comune il nome, la laurea in giurisprudenza, la passione per la politica economica, un padre liberale e antifascista, il comunismo borghese, l’idea che la rivoluzione può attendere, ma soprattutto il talento di fare rete. L’oro di Napolitano viene da qui. Oro come patrimonio umano, culturale e politico. Nessuno come lui. Nessuno come Re Giorgio. E’ uno straordinario superstite della storia. Ha detto sì a Togliatti, seppellito i morti di Budapest, cavalcato il miracolo economico, scavallato il primo centrosinistra di Fanfani, sopportato il ’68, sorriso a Berlinguer, dialogato con Moro, strtappato con Mosca sull’eurocomunismo, stretto la mano a Kissinger, parlottato con Craxi, fare un passo più in là quando è caduto il muro a Berlino, regalato una pacca sulla spalla di Occhetto, si è indignato in silenzio per tangentopoli, accompagnato la crescita di D’Alema e Veltroni, parlottato anche con Berlusconi, poi ha atteso con calma che si aprisse un varco per il Quirinale e una volta entrato ha disegnato la sua ragnatela, per poi dettare i tempi della politica, fino a dire sì sommessamente per amor di patria a un bis unico e imprevisto. La longevità di Napolitano, la sua capacità di resistere e sopravvivere, non è un regalo divino.  E’ il senso della sua carriera. Il vecchio Nap incarna i destini e le metamorfosi della sinistra italiana. E’ ciò che rimane dopo la selezione della specie. E’ il gene non recessivo, quello che la natura ha scelto di conservare sacrificando il bene e il male del Pci e dei suoi cespugli. Non è la perfezione. E’ l’adattamento della specie. Non sorprendetevi se  in Renzi, innesto coraggioso tra Botteghe Oscure e Piazza del Gesù, troverete, insieme ad altre cose, anche aspetti napoletaniani. Il salto genetico e culturale è avvenuto anche grazie alla resistenza dei miglioristi. Senza l’ultimo di loro non ci sarebbe stato il passaggio.

Tracce interessanti di questo percorso li trovate in un” saggio inchiesta” di due giornalisti con l’istinto da cani randagi, cani sciolti, con le loro idee e forse i sogni di una sinistra meno ipocrita, che non verranno mai invitati a partecipare a una messa solenne di qualche quotidiano santuario. Si chiamano Francesco Pinotti e Stefano Santachiara. Tutti e due molto bravi a smascherare interessi e clientele di chi vive di res publica. I panni sporchi della sinistra (Chiare lettere, pagg. 382, euro 13,90). Ecco il titolo del libro. Sfogliate. Il primo protagonista, il patriarca, è proprio lui, il due volte presidente delle repubblica, il Quirinale al quadrato. La corazza di Napolitano è una “tela di rapporti avvolgenti”. La Mosca di Gorbaciov, per esempio. L’ex deputato parmigiano, Gianni Cervetti (molto vicino a Giorgio), fautore dell’alleanza coi craxiani nel laboratorio di Milano, ha ricordato in un suo libro l’esistenza di “una sorta di patrimonio di riserva costituito da investimenti in titoli e preziosi. In vari ambienti circolava la voce secondo la quale un consistente accordo commerciale di gas nell’Unione sovietica avrebbe garantito negli anni a venire a diversi partiti, tra cui il nostro, una percentuale sulla quantità effettivamente importata, grazie ai buoni uffici per firmare l’accordo alle migliori condizioni”. La tesi di Pinotti e Santachiara è che Napolitano si trova negli incroci più importanti della politica italiana e straniera. E’ l’americano del Pci e sarà l’americano anche dopo. Piace a Washington e rassicura l’Europa. E’ nelle trattative che contano e si muove per affinita e “fratellanza”. Non chiude la porta a Berlusconi e cerca sempre il dialogo e la strada più tranquilla anche quando c’è da sporcarsi le mani con la real politik. Non ci sono reati e non ci sono neppure giudizi morali. C’è però il segreto della resistenza e della grande abilità politica di Napolitano. Nel suo carattere si riconosce il lavoro e la tessitura di quest’uomo della prima repubblica a cui il destino ha affidato il difficile compito di disegnare la terza. E’ il segno di una continuità che segna il futuro dell’Italia. Se si vuole è anche interessante la storia pubblica del libro di Pinotti e Santachiara, perché la sinistra che conta continua a leggerlo con fastidio, quando non riesce o non può ignorarlo. E’ la costante di una cultura che non ha mai amato fare i conti con la propria storia, preferendo rifugiarsi nella fede della questione morale e nell’orgoglio di una diversità antropologica che negli anni lascia il segno indelebile di una benda sugli occhi. Può capitare così che il Venerdì di Repubblica dedichi un lungo servizio ai rapporti tra Napolitano e i poteri forti britannici senza citare il saggio di Pinotti e Santachiara, almeno per fare il paragone con l’ingresso trionfale di Napolitano nelle stanze che contano a Washington. Poco male. I panni sporchi della sinistra è un libro eretico. Non solo per Napolitano, ma per tutti i protagonisti che incontra e racconta. E’ il silenzio come maledizione, come dannazione della memoria. Di ciò che va dimenticato non si deve parlare. Non tanto. Non troppo. Soprattutto senza scandalo. Eppure è in questi panni sporchi che ristagna il nostro futuro. E’ da lì che ripartiremo. Non c’è che rassegnarsi. Moriremo napodemocristiani.

 

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