Sono passati troppi anni e una mezza dozzina di mesi. L’Einaudi aveva scelto Parigi per presentare un progetto piuttosto ambizioso: raccontare in cinque volumi Il romanzo. Era ottobre, c’era un albergo sulla rive gauche dove Mario Vargas Llosa parlava di questo contenitore letterario, il romanzo appunto, come se fosse un personaggio delle sue storie, un signore di mezza età, di origine borghese, con qualche antenato tra i coloni della Magna Grecia. Un tipo sospetto, poco amato dalle autorità, che si porta dietro un’insoddisfazione cronica e una strana malattia che fa dire spesso ai suoi dottori: sta per morire, è morto, è morto da tempo, seppellito e in cenere un giorno, risorto il giorno dopo. Vargas Llosa, da vecchio libertario, si divertiva a sottolineare che la buona letteratura è sempre, anche quando non se ne accorge, sediziosa, non sottomessa, in rivolta, una sfida a ciò che esiste. E allora questi cinque tomi, pagina dopo pagina, potranno un giorno essere letti anche così, come un lungo romanzo sul romanzo, come se i personaggi di tutte le storie e di tutte le epoche si fossero dati appuntamento qui, con tipi umani che sono lo specchio della realtà, anzi sono la realtà, ostinatamente vivi e affascinanti, anche quando sono mediocri o senza qualità, avidi o avari, vigliacchi, maniaci o folli. Come se questi individui di carta fossero, alla fine dei conti, più umani degli umani, raffigurazioni ideali di ciò che vorremmo essere e, nel bene o nel male, non saremo mai. Vargas Llosa, in quei giorni d’autunno, ne parlava così: “Vivere insoddisfatti, in lotta contro l’esistenza, significa ostinarsi, come don Chisciotte, a combattere contro i mulini a vento, condannarsi in un certo senso, a ingaggiare quelle battaglie che ingaggiava il colonnello Aureliano Buendìa di Cent’anni di solitudine, sapendo che le avrebbe perse tutte. Senza l’insoddisfazione e la ribellione contro la mediocrità e lo squallore della vita, noi esseri umani vivremmo ancora in condizioni primitive, la storia si sarebbe fermata, non sarebbe nato l’individuo, scienza e tecnologia non si sarebbero sviluppate, la libertà non esisterebbe, perché tutte queste creature nate partendo da azioni di rivolta contro una vita percepita come insufficiente e intollerabile”.

Sono passati gli anni e via via sono arrivati nelle librerie tutti i volumi: La cultura del romanzo, Le forme, Storia e geografia, Temi, luoghi, eroi, fino al quinto, Le lezioni, leggendo si percepiva una sorta di angoscia, qualcosa di simile ad una nostalgia indefinita. C’è voluto tempo, e troppe pagine, per capirlo: qui, oggi, nel presente se c’è una qualità che non manca è l’informazione, basta prenderle, anzi basta non interrompere il flusso di ricezione che fa parte della nostra vita. Siamo la generazione meno ignorante e più informata che ci sia. La notizia, come frammento, è diventata la nostra forma letteraria quotidiana. Il nostro cervello si è ormai abituato a ricevere il frammento e ad archiviarlo. E se la memoria diventa troppo pesante basta gettare un po’ di bit nel cestino, fare un “defrag” ogni tanto e assorbire gli spazi vuoti. Quello che manca è altro: non sappiamo più narrare. Il racconto, che ha bisogno di spazi vuoti, è stato ucciso dal frammento, che tende invece a ridurre gli spazi, compattandosi. Quegli spazi vuoti erano la materia prima di aedi e romanzieri, era la culla della cultura orale, fiabesca, narrativa. Era il non detto che generava mondi. Baricco, nella lezione dedicata a Marquez, ricorda l’incontro con uno scrittore colombiano, che gli spiegò il segreto del “realismo magico”: la lontananza. Disse che la terra, dalle sue parti, era disegnata in modo bizzarro e duro, per cui paesi che destavano dieci chilometri non potevano comunicare mai. E questo vale anche per terre fredde come il Canada o la Scandinavia. In quell’occasione gli raccontò una storia: “C’è un paese in riva al mare, che per la festa del santo patrono, invita dalla capitale un circo. Quelli del circo accettano, salgono su una nave e si dirigono verso il paese. A metà del viaggio una burrasca spezza in due la nave e tutti finiscono in fondo al mare. Al paese vengono a sapere del naufragio e si mettono l’anima in pace. Sarebbe finita lì, ma qualche giorno dopo i pescatori di un paese vicino tirano su le reti e ci trovano dentro un leone. Morto, ma proprio un leone. Tornano a casa e dicono che hanno pescato un leone. Dato che il paese è vicino ma in realtà lontanissimo per via di qualche indigenza comunicativa, nessuno lì sa niente del circo. Quel che succede è che, molto semplicemente, torna a casa lo zio dal lavoro e ti dice: oggi ho pescato un leone. Se sei normale ci ridi su. Se sei Garcìa Marquez hai una pagina in più per il tuo capolavoro”.

Forse il merito di Franco Moretti, che ha curato “Il romanzo”, è di aver lasciato intuire questa assenza. Moretti è uno studioso delle forme, e tende a mettere in evidenza come la forma romanzo cambi al mutare dello spirito del tempo, di quella che possiamo chiamare visione del mondo. Questo non significa che il romanzo sia morto o stia per morire. Ma solo che il romanzo ha una capacità, multiforme, di adattamento straordinaria. Da qui il suo successo e la sua tenuta. Lo capisci leggendo l’ultima generazione di grandi romanzieri. Sono tutti ossessionati dalla grande narrazione, dalla storia che torna indietro alle proprie radici, l’esigenza di riallacciare il dialogo con il proprio passato. Al centro del romanzo, in questo momento, c’è l’identità: culturale, sociale, razziale, sessuale, individuale. L’obiettivo è guardare i frammenti lasciati per terra e ricostruire, con pazienza, ciò che un tempo era un mosaico. L’unico problema, semmai, è che si ha solo un’idea vaga e intuitiva di ciò che il mosaico dovrebbe rappresentare. Siamo orfani di un’idea, ma questo è un affare che spetta, si suppone, ai filosofi.

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