Le storie di Michele Mari ti stanno nella carne da una vita, qualcuno
direbbe che sono antiche, ma non è proprio così; sono semplicemente eterne.
Se non ci credete fidatevi della sua voce e della sua faccia, ma ancora di
più dei suoi romanzi.  Se in questa stagione lo spazio non fosse così
risicato e il tempo troppo veloce varrebbe la pena di stare qui a
raccontarli per giorni.  Sfogliare con calma la bestia che convive nel petto
di un giovane erudito, un filologo, in un borgo selvaggio, circondato da una
famiglia dove per dovere le finestre sono chiuse e solo le parole di un
fratello possono raccontare il doppio incanto che fa convivere il genio e il
lupo. È quello che Mari racconta in Io venìa pien d’angoscia a rimirarti,
romanzo di una ventina d’anni fa, ripubblicato ora da Cavallo di ferro. È il
Leopardi che ulula alla luna e se ne va selvaggio a deragliare nelle notti
da licantropo.  E solo la poesia forse lo salverà, domando il demone.
Quando ci sentiamo la prima tentazione è di parlare di Rosso Floyd, di
quell’alchimia che permette a Roger Waters e David Gilmour, a Richard Wright
e Nick Mason di non esplodere come pezzi di cristallo, ma di sopravvivere
come se fossero i prismi di uno stesso pazzo diamante, che regala a ognuno
di loro un pezzo della propria anima.  Potremmo discutere dei suoi racconti,
di Kafka, di Salgari o di Cecco Angiolieri, vite incompiute di Fantasmagonia
(Einaudi).  Invece finiamo a parlare di calcio, di quando giocava ancora con
l’Osvaldo Soriano Football Club, nazionale degli scrittori, e del suo tifo
ancestrale per il Milan. «Sono uno che corre, uno di quei laterali che si fa
tutta la fascia, non importa se da terzino o da ala, uno come Daniele
Massaro, naturalmente in una scala da uno a mille.  Solo che a 57 anni ormai
è dura».  Questo perché Michele Mari assomiglia ai suoi personaggi. È uno che
si ferma per non andare a sbattere contro la morte e per questo crescere
significa delimitare il proprio destino, sacrificare possibilità. È uno che
conta le vite che poteva vivere e non ha vissuto. «Qualche giorno fa sono
stato con mio figlio a vedere Ted.  Conosci la storia?  C’è un ragazzo che da
bambino è così legato al suo orsacchiotto di peluche che spera di vederlo
vivere. È quello che accade.  L’orsetto però crescendo diventa sboccato,
volgare, fastidioso, sessuomane.  Vivere con lui è difficile.  Alla fine la
fidanzata mette il ragazzo davanti a un ultimatum: diventare adulto, e
abbandonare l’orsetto al suo destino, o restare da solo.  Anche io spesso mi
sento un bambino invecchiato».
Mari è un collezionista di oggetti della sua infanzia: biglie, figurine,
tappi, pupazzi. È come Voldemort, il nemico di Harry Potter, che lascia un
pezzo della sua anima negli Horcrux. «Ma io preferisco i mostri simpatici,
quelli come il Grinch, mostri perché indifesi, fragili».  E gli oggetti? «Non
riesco a liberarmene.  Ho vissuto molto intensamente l’infanzia e ho
trasmesso a quei feticci molta della mia emotività.  Poi mi sono inabissato,
dedicandomi agli studi.  Non ho avuto una adolescenza e la mia giovinezza è
piena di rimpianti.  Ero impacciato, timido, riservato.  Ho vissuto i tempi
dell’università, gli anni ’70, fuori dal tempo e questo mi ha reso estraneo
ai miei coetanei.  Cosa ho fatto?  Studiato.  Mi sono formato.  Con fatica.
Probabilmente conosci Roland, la manifestazione organizzata a Milano da
Giorgio Vasta e Marco Peano.  Mi hanno invitato con altri scrittori,
chiedendomi di raccontare cinque oggetti legati alla mia vita.  Uno di questi
era una bottiglia piena dei mozziconi di matita che ho usato per
sottolineare i miei libri.  A vederla sembra un’opera pop.  Per me è il segno,
la prova tangibile, della mia formazione».
Se qualcuno, però, sostiene che Michele Mari sia uno scrittore fuori dal suo
tempo non ha capito molto.  Mari non scrive di lavoro, non tocca i precari,
sembra portarti sempre da un’altra parte.  Ed è lì che trovi quello che
siamo.  Mari ti parla di uomini e di come si guardano in faccia, di come
sopravvivono alla loro parte oscura, come ci convivono, come seguono o si
ribellano ai loro demoni, alle loro bestie e da come questa lotta genera
energia, diventa metamorfosi e creazione.  Ogni volta accade quello che si
vede in Verderame, dove un bambino e un adulto si confrontano e imparano a
fidarsi, a convivere.  Il bambino non perde magia, ma la costruisce con la
disciplina, il perfezionismo, il rifiuto di accontentarsi, di lasciar
andare, di essere sciatto. «Per tutta la vita mi sono confrontato con i
morti e Fantasmagonia è il mio tributo agli otto scrittori che con il loro
lavoro hanno arricchito la mia fantasia».
Il tempo sta finendo.  Ci sono molte cose rimaste nel retrobottega di questo
incontro.  Chi è Michele Mari?  Se gli chiedi di scegliere un personaggio
umano lui dice «Ferdinand Bardamu».  Il personaggio ombra di Céline, il
protagonista di Morte a credito, un falso cinico, un uomo dai pochi bisogni,
essenziali ed intoccabili, ma che sa riconoscere nella miseria degli altri
la propria.  Questo è l’uomo, ma ancora più importante è la bestia. «Lo
confesso.  Più di tutti io amo Buck.  Il richiamo della foresta».
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