Uno, due, tre.  Tibor Nyilasi tocca all’ala, Fazekas scivola, crossa e
rotola, poi la palla in qualche modo arriva a Törocsik e qui accade
l’imponderabile.  Il centravanti di quell’Ungheria inventa un tiro quasi
contronatura, colpisce di «spizzo», con l’esterno destro, quasi fosse una
vera «rabona», la panna gira e va veloce, verso sinistra, sembra volare
oltre lo stadio e invece all’improvviso curva e sfonda porta, portiere e
carabattole varie.  Era il 1978, qualche mese dopo Baires ’78. È l’ultima
volta che hai segnato un gol così.  Ed era su un campo disteso su un tavolo
da cucina, verde, con le tribune e le luci notturne.  Era la magia del
subbuteo.
Nessuno voleva l’Ungheria, con quella maglia rossa, quasi banale, i
pantaloncini bianchi e l’unica nota creativa i calzettoni verdi.  L’Italia di
Rossi e Cabrini era chiaramente il sogno.  L’Olanda di Cruyff la scelta di
chi ci capiva.  La maglia blu della Ddr una vocazione infantile da comunista.
L’Ungheria era la tassa dell’ultimo arrivato, quello che aveva sforato di
mezz’ora l’appuntamento.
Quelli erano tempi in cui la realtà virtuale non si chiamava playstation.
Era tutto meccanico, fisico, la forza e la sensibilità dell’indice, la base
piatta dell’omino, il panno verde.  E una dose massiccia di fantasia.  I
giocatori avevano i volti tutti uguali.  Non potevi distinguere Bettega da
Zaccarelli, al massimo potevi dipingergli i baffi.  L’assurdo è che lo facevi
e quegli omini tutti uguali avevano un nome, una storia, un carattere e un
destino.  Uno può pensare quello che vuole, ma non si può certo biasimare
quell’amico milanista che a metà del primo tempo gettava disgustato nella
scatola l’archetipo del giocatore Chiodi e prendeva una riserva, neppure
originale.  E tutti: «Ma dai, che ti frega.  Cambiagli nome». «No, quello è
Chiodi e anche se lo chiami Rivera sempre una schiappa è».  La filosofia è
chiara: non puoi ingannare gli dei.  L’omino Voodoo di Rivera era un altro, e
quello giocava da Dio.
Si giocava, con uno strano feticismo delle maglie, quelle più belle, quelle
più rare, quelle del cuore.  Quando un giocatore si rompeva, staccandosi
dalla base, ci si improvvisava chirurghi.  Due le tecniche, una più invasiva:
squagliare la plastica con un cerino e attaccare base e corpo.  L’altra, più
moderna, era la colla.  La verità è che quando un giocatore era rotto finiva
la carriera.  Ma non lo buttavi, anche perché ogni volta ti tornava in mente
la storia del soldatino di piombo, con tutti i sensi di colpa.  E poi, tra i
tuoi rottami, ce n’era uno tarchiato con i piedi bruciati che segnava
valanghe di gol.  Lo avevi battezzato Boninsegna e hai continuato a tenerlo
in squadra anche quando Fraizzoli lo spedì a Torino, maglia bianconera.  Il
bello del subbuteo è che qualche volta la realtà si può anche cambiare.  Così
in campo c’erano due Bonimba, quello juventino di qualche tuo amico, e il
tuo nerazzurro nei secoli dei secoli. È con il subbuteo che hai imparato le
tattiche, capito il fuorigioco e odiato tutti quelli che facevano melina.  I
bastardi che per fare un passaggio ci mettevano tre ore.  E gli altri a
sacramentare: «Mica stiamo a gioca’ a scacchi».  Era un calcio in punta di
dito.
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