Non so mai dove finisce la strada.
Sono qui che vado senza sapere dove; e ascolto sempre questa fottuta canzone, si proprio quella scritta da Red Sovine. La sentite? “I smoked up all his viceroys as we rolled along”.
Non mi piace viaggiare da solo e ogni tanto tiro su qualcuno e adesso scacciata ai bordi della strada c’è questa ragazza mora con un vestito leggero nero e una giacca granata piantata su due vecchi camperos e un Invicta sulle spalle. La guardo e mi chiedo come cavolo sia apparsa in questa notte bianca. Non sia mai detto che però la lascio abbandonata qui e allora carico il piede sul freno e fermo il mio mostro dalle cento luci. Sento il grido dell’autotreno sull’asfalto La guardo negli occhi e sono verdi e scuri. Ragazza qui il tempo rallenta.
Che ci fai qui davanti al nulla? Sei vera? Ma anche se non lo sei, vieni su. Perché fuori fa freddo e presto potrebbe piovere. Non le vedi quelle nuvole? Aspettano solo di cadere. Mi chiamano Big Joe e la mia carcassa è il Phantom 309.
Mi piacerebbe raccontarle una storia, ma l’unica che conosco è questa strada. Così le offro una sigaretta mentre lei mi dice che, no, non è norvegese, ma viene dal Balaton, non proprio sul lago, un po’ più all’interno e, sì, comunque è ungherese.
Sta cercando un villaggio dove un tempo c’era una miniera e ora non ci vive più nessuno e sogna di fotografare qualcosa che non c’è. “A me piace ricordare quello che non si vede”. Invece io vorrei avere ancora i miei ricordi, ma non riesco più a trovarli. E’ da qualche tempo che tutto scompare poco dopo che accade. Non vorrei dimenticare questa ragazza, perché ha i polpacci sodi, come chi è abituata a camminare in salita, e la pelle che sa di muschio e avrei voglia di baciarla quando mi dice che guido come un pazzo e il cruscotto è illuminato come un vecchio flipper Madame La Rue. Solo che ho paura che tutto questo non sia vero e le dico se per caso anche lei è una di quelle autostoppiste fantasma su cui si raccontano tante storie. No, quali? Ne conosco solo una, sempre la stessa. La ragazza appare lungo la strada e chiede un passaggio per tornare a casa. Si fa fermare vicino a un cimitero ma lascia una giacca come la tua sul sedile posteriore. Ecco lei adesso scoppia a ridere e fa smorfie con gli occhi, aprendoli, sbarrandoli, aprendo la bocca come in un urlo strozzato. Ma la storia è davvero così. Nella giacca c’è l’indirizzo di casa e bussi e parli con la madre e dici: signora ecco la giacca di sua figlia. E lei naturalmente sbianca e ti insulta e piangendo urla che la figlia non c’è più, è morta anni fa, uccisa al bordo di una strada e la prova è al cimitero. Ne hai sentite storie come questa? Dice di no, perché ha paura dei fantasmi. E qui tutti e due ridiamo e mi sembra di poterle afferrare la mano. Sì, anche il mio camion si chiama Phantom. Perché? “Ragazza, perché non c’è autista che possa affermare senza vergognarsi di aver visto su questa strada o qualsiasi altra solo le luci posteriori di Big Joe e del suo Phantom 309”.
Vorrei portarla lontano, ma qui c’è il bivio che mi tocca fare. Vediamo le luci dell’area di sosta. “Mi spiace, figliola, ma purtroppo sei arrivata”. Io svolto di qui. Mi mostra la sua giacca di pelle amaranto: “Lo prendo, così domani non dovrai riportarlo sulla mia tomba”. Come risposta le lascio un biglietto da dieci: “”Entra in quel bar ragazza e fatti una tazza di caffè alla salute di Big Joe”.
Mi sembra già di non ricordare più nulla. Forse lei è davvero solo un fantasma. O magari lei su questa storia scriverà una canzone. Big Joe e il Phantom 309.

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