Non bisogna stupirsi se il cavaliere della Mancia amava perdersi nelle curvature dello «spaziotempo». Don Chisciotte in qualche modo deve aver avuto contezza della relatività di Einstein.
Non per quell’ossessione visionaria di scaraventarsi contro i mulini a vento barattandoli per armigeri. Quello è sogno, o avventura o magari follia. No, non per quello, ma per quel suo modo di raccontare dove non si sa mai se il narratore, l’osservatore, sia dentro o fuori, in un presente perennemente in sospensione. Non stupitevi neppure per i paradossi della probabilità di Rosencrantz e Guildenstern e per la sostanza dei sogni di Amleto, tantomeno per i viaggi dimensionali di Gulliver o per le peregrinazioni di Alice. Forse qualcuno avrà preso per una beffa, qualche volta snervante, le infinite disgressioni di Tristram Shandy, ma non erano solo arguzie pressoché infinite. Erano un problema di orologio. Con che tempo sta chiacchierando? È velocissimo se si sta narrando una vita con le inevitabili opinioni, ma a pensarci bene potrebbe essere accidentalmente lento visto che non supera le 24 ore. Il sospetto allora è che i personaggi da romanzo, non solo questi, abbiano intuito l’universo di Einstein. Erano già lì, senza magari preoccuparsi più di tanto dell’equazione di campo o della costante cosmologica, quel trucchetto matematico per tenere in equilibrio tutto. Questo non significa che siano più svegli di Albert, ma che la loro finzione era più vera del reale. Così, a pelle, senza sapere di avere gli occhiali giusti. Come quello stesso sentimento del tempo si incarna in Swan, in Zeno Cosini, nell’Ulrich senza qualità di Musil o in quel 16 giugno 1904 che è il campo dove si svolge il flusso di coscienza di Leopold Bloom e Stephen Dedalus, l’Ulisse di Joyce, insomma.Non bisogna neppure dimenticare i personaggi in cerca di autore. Pirandello ed Einstein si conoscevano. C’è una famosa foto nei giardini dell’Università di Princeton con Albert a petto nudo e Luigi in doppiopetto grigio, un po’ imbarazzato. Era il 1935. «Maestro – aveva chiesto un giornalista qualche anno prima -. Pensa di aver fatto nel teatro ciò che Einstein ha fatto nella scienza?». «Perfettamente. È venuto a trovarmi in teatro, nel mio camerino e appena entrato mi ha detto in italiano: noi siamo parenti».Einstein cambia il paradigma. Il mondo non ha più gli stessi occhi. Le certezze di Newton si sfumano. Non c’è una forza che tiene attaccata la luna al sole. Il nulla per fortuna non esiste e, come penale, scompare l’idea di spazio e tempo assoluto. L’uomo guarda in faccia l’infinito e la relatività. La grande paura è che sia insignificante e senza Dio. Non è però esattamente questo quello che Einstein e Pirandello e gli altri ci dicono. È il contrario. La teoria della relatività rimette insieme i pezzi. È una teoria generale raccontata con la lingua matematica, e quelle equazioni si specchiano con la realtà. L’esperienza non falsifica i numeri. Non sbugiarda l’idea. Non è nichilismo, ma voglia di ritrovare un senso.Quando il romanzo vede il tutto con gli occhi di Einstein non si perde e non si dispera. Qfwfq, il protagonista palindromo delle Cosmicomiche e di Ti con zero di Italo Calvino, trova profondamente dolce naufragare in questo mare. «In Ti con zero cerco di vedere il tempo con la concretezza con cui si vede lo spazio. Nel racconto, ogni secondo, ogni frazione di tempo è un universo. Ho abolito tutto il prima e il dopo fissandomi così su l’istante nel tentativo di scoprirne l’infinita ricchezza». È Calvino che parla e il suo viaggio nel postmoderno è una scommessa di leggerezza. Il romanzo come ricerca, come confini da superare e territori sconosciuti da esplorare. Mappe, frontiere, viaggi agli incroci dell’infinito. Linee e muri. Sono lo «spaziotempo» che Mason e Dixon tratteggiano, quasi come marionette inconsapevoli, nel romanzo di Thomas Pynchon o lo spaesamento di Billy Twillig in La stella di Ratner di Don DeLillo: «Davanti c’era però l’orizzonte sonnolento, pulsante fra polvere e fumi, una finzione i cui limiti erano determinati dalla prospettiva individuale, un po’ come quelle quantità immaginarie (la radice quadrata di meno uno, per esempio), che conducono a dimensioni nuove». È il tempo iperallentato, che tende a zero, di Infinite Jest di David Foster Wallace. È quella voglia disperata di infinito che ci costringe ad aggrapparci alle nostre ossessioni, almeno fino a quando non verrà risolta l’equazione del tutto. La teoria di Einstein ha 100 anni ed è la zattera migliore con cui navigare. È la consolazione che ci accompagna dai tempi di Lucrezio: «Poiché l’universo, oltre i limiti di questo nostro mondo, è infinito, la mente vuole sapere che cosa vi sia al di là, fin dove essa riesce a spingersi con la sua intelligenza».

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