Chi difende lo Stato in Calabria? Le forze dell’ordine, quando non si dimostrano a busta paga dei boss. I politici, quando non vanno in udienza a casa dei capifamiglia a elemosirare voti. E poi ci sono i magistrati… E qui il discorso – per chi ha voglia di farsi qualche domanda – si complicano.

Cominciamo da Giancarlo Giusti, l’ex gip di Palmi arrestato dalla Procura di Catanzaro per un presunto«patto scellerato» con la cosca Bellocco di Gioia Tauro. Su Giusti i primi sospetto erano sorti quando nel 2009 furono scarcerati tre esponenti della potente famiglia della Piana: Rocco Bellocco, Rocco Gaetano Gallo e Domenico Bellocco detto «Micu ’u Lungo», gettando alle ortiche mesi di lavoro investigativo. Scattarono le intercettazioni e «venne scoperta – così dice il procuratore della Repubblica di Catanzaro Vincenzo Antonio Lombardo – una corruzione accertata dopo una prima richiesta di archiviazione, in una  vicenda che evidenzia un tradimento degli obblighi professionali, fermo restando il principio di presunta innocenza».

Secondo un magistrato, un suo collega si sarebbe venduto (per circa 120mila euro) facendo scarcerare personaggi di spessore della ndrangheta calabrese. Se è vero saranno i processi a dirlo. Ma le accuse sono pesantissime: corruzione in atti giudiziari, con l’aggravante di avere favorito un’associazione mafiosa, ed il famigerato concorso esterno.  Che cosa possa essere successo quando Giusti ha lavorato al Riesame a Reggio Calabria è ancora tutto da scoprire.

Giusti era (ed è ancora) agli arresti domiciliari per un’altra faccenda poco chiara. Il 27 settembre del 2012 l’ex gip era stato infatti condannato a quattro anni per i suoi rapporti con la cosca Lampada, aveva tentato il suicidio il giorno successivo al carcere di Opera. Circa un mese dopo, il 29 ottobre, un perito del tribunale di Milano aveva stabilito che nel carcere di Opera non poteva ricevere le cure psichiatriche di cui aveva bisogno dopo il tentato suicidio.

Qual era la natura dei suoi rapporti con la presunta cosca dei Lampada? Favori in cambio di sesso, a causa di una personalità fragile: «La sua è una vera e propria ossessione per il sesso, per lo più a pagamento; ha esigenze economiche legate a un tenore di vita sicuramente elevato; ricerca spasmodicamente occasioni di guadagno parallele in operazioni immobiliari e di varia natura», scrivono i giudici milanesi che lo hanno incastrato qualche anno prima, quando in una telefonata intercettata, Giusti non si faceva scrupolo a dire: «Non hai capito chi sono io.. sono una tomba .. ma io dovevo fare il mafioso, non il giudice». Un finto bullo, sembrerebbe, che alla sorella (la telefonata è agli atti) , dopo avere avuto la notifica dell’avvio di un procedimento disciplinare del Csm sulla base anche dell’inchiesta della Dda di Catanzaro, dice: «È finita per me, guarda che vengono di notte e mi prendono… è finita».

La domanda è: com’è possibile – se è vero – che nessuno si sia accorto che un importante magistrato fosse alla fine un uomo fragile, assetato di soldi e di sesso e ben disposto a fare affari con le cosche in cambio di soldi? A quanto pare non sarebbe il solo.

C’è un altro nome che merita qualche riga. Si chiama Vincenzo Giglio, è un giudice ed è finito nello stesso vortice di Giusti: gli affari con il clan Lampada-Valle, su cui la letteratura giudiziaria (soprattutto sul fronte della famiglia Lampada) è abbastanza scarna. Ma tant’è. Giglio e l’ex finanziere Luigi Mongelli (condannato a 5 anni e tre mesi, contro i 4 anni e 7 mesi di Giglio) , furono arrestati nel novembre 2011 nell’ambito dell’inchiesta milanese sul clan Valle-Lampada e oggi sono agli arresti domiciliari, in attesa della sentenza d’appello, anche grazie a una sentenza che stabiliì l’incostituzionalita’ di quella parte dell’articolo 275 del codice di procedura penale che prevede l’obbligo della custodia in carcere per chi è accusato di reati aggravati dal cosiddetto articolo 7, ovvero reati commessi con l’aggravante del metodo mafioso. (Piccola parentesi. Quando uscì in agenzia la notizia del tentato suicidio di Giusti le agenzie scrissero che la vittima era Giglio, e che era morto. Amen).

Cosa avrebbe combinato Giglio? Corruzione, rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento aggravato dall’aver agevolato la cosca mafiosa. La sorte di Giglio era legata a doppio filo con quella dell’ex consigliere regionale Pdl Franco Morelli, condannato in primo grado a 8 anni e 4 mesi e interdizione perpetua dai pubblici uffici per concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione e rivelazione di segreto d’ufficio e il presunto boss Giulio Lampada(«Non è mai esistito quel clan, non ce n’è traccia negli atti», dissero allora i suoi legali Ivano Chiesa e Manlio Morcella), re dei videopoker a Milano condannato a 16 anni.  Il giochino, secondo i pm, era facile. L’ex maresciallo Gdf Mongelli intascava mazzette assieme ad altri colleghi per non fare i controlli sulle macchinette mangiasoldi. Il giudice Giglio, amico di Morelli, avrebbe fatto pressioni per piazzare la moglie a commissario della Asl di Vibo Valentia e in cambio avrebbe offerto al politico qualche «dritta» sulle indagini che lo riguardavano.

Entrambi erano in rapporti con Lampada, cui avrebbe fatto comodo una copertura politica dopo il «mascariamento» del suo precedente cavallo politico di battaglia, quell’Alberto Sarra di cui si parla nel libro Madun’drina, che nel 2007 al telefono (intercettato) con Lampada parla, anzi straparla: «Quando mi muovo a Milano ho una chiavetta nera. Ho praticamente un centinaio di sportelli Bancomat perché quella è la chiave del cambiamoneta (cioè dei videopoker, ndr). Ti faccio un esempio: stasera sono con te e mi serve da prendere mille euro, vado in uno dei bar, apro e me li prendo». Al telefono Lampada e Giglio progettano anche la costituzione di una finanziaria. Dice in un’intercettazione l’ex macellaio di Reggio: Dobbiamo trovare, Alberto, una bella banca, qua su Milano, che ci faccia fare quello che vogliamo… Quello che vogliamo… io intendo dire… attenzione! Non che ci fottiamo i soldi alla banca, mi sa che non rientra nelle nostre…. E la cosa si complica… Sarra viene coinvolto in un’altra inchiesta su mafia e politica, quella che ipotizza un ruolo dell’ex senatore Idv Sergio De Gregorio beccato dai Ros a una cena con Sarra assieme ad alcuni esponenti della cosca Ficara. De Gregorio fu archiviato perché riuscì a dimostrare di non sapere chi fossero, a differenza di Sarra, i suoi interlocutori.  Scrivevo a fine 2010: «Quell’avviso di garanzia a Sarra, dicono i Ros, aveva fatto crollare il sogno dei Lampada e avrebbe portato Sarra a “interrompere ogni collegamento con esponenti vicini alla criminalità organizzata” per non aggravare la sua posizione giudiziaria».

Morto un papa se ne fa un altro. al posto di Sarra arriva appunto Morelli, consigliere regionale calabrese. Il 13 febbraio 2008 viene intercettata una telefonata fra Giulio Lampada, nato a Reggio Calabria il 16 ottobre 1971, e Morelli. Dice il primo: «La chiamavo per salutarla siccome sapevo che doveva salire a Milano in questa settimana, non l’ho sentita per nulla, ho detto io lo chiamo vediamo se verifi… se sale per caso a Milano… così».

Ma bisogna anche rileggersi un informativa del Ros dei carabinieri in cui si parla di rapporti “oscuri” tra i Lampada e i fratelli Vincenzo e Mario Giglio, cugini del giudice.  Scrivevo ormai quattro anni fa: «Vincenzo, medico di professione, secondo i carabinieri “voleva scalare i vertici della politica locale di Reggio Calabria”. Alle politiche del 2008 tentò invano di farsi eleggere nel movimento La Rosa bianca. Con Giulio Lampada avrebbe creato un intenso rapporto cominciato con un affare: l’acquisizione di un immobile nel pieno centro di Milano. Il problema è che, secondo i pubblici ministeri, i Lampada rappresentano “quelle tipiche figure criminali che si innestano pienamente nel substrato mafioso” con “compiti e ruoli connessi alla gestione del patrimonio economico del cartello mafioso” legato alla cosca Condello, guidata da Pasquale Il Supremo, arrestato nel febbraio 2008 dopo diciotto anni di latitanza. E qui il malaffare s’intreccia con un omicidio che ha riscritto la storia politica recente. Il fratello di Vincenzo Giglio, Mario, ha lavorato nelle segreterie politiche di due consiglieri regionali coinvolti in vicende inquietanti. Era il capo della segreteria di Franco Fortugno, il vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria eletto nelle fila della Margherita e assassinato a Locri il 16 ottobre del 2005. Poi diventerà capo della segreteria di Crea, che all’inizio del 2008 finisce in carcere nell’inchiesta Onorata sanità su un giro di corruzione e pressioni mafiose.

Basta così? Non proprio. C’è ancora l’affaire Lo Giudice, l’ex pentito Antonino che ha detto tutto e il contrario di tutto ai magistrati reggini, anche attraverso discutibili memoriali. Macchinazioni per colpire altri magistrati, ovviamente. Prima si è autoaccusato di essere l’ideatore delle bombe fatte esplodere nel 2010 contro la Procura generale di Reggio Calabria e contro l’abitazione del procuratore generale Salvatore Di Landro oltre all’intimidazione all’allora procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone, con il ritrovamento di un bazooka ad alcune centinaia di metri dal palazzo della Dda, chiamando in causa anche il fratello Luciano ed altre due persone.

Poi si è rimangiato tutto, con un video fatto immediatamente prima di abbandonare il rifugio protetto dove era stato nascosto: «Ho confessato perché ero manipolato dalla Dda di Reggio Calabria», cioè a suo dire dall’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone, adesso a Roma, dell’aggiunto Michele Prestipino, del pm Beatrice Ronchi e dell’ex capo della mobile Renato Cortese, che oggi dirige la squadra mobile di Roma. Ma c’è un giudice a cui Lo Giudice chiede scusa: è l’ex procuratore aggiunto della Dna Alberto Cisterna, che non nega la frequentazione con il presunto boss ma sostiene che la cosca Lo Giudice l’avrebbe smantellata nel 1993 arrestando il padre. C’è un rapporto stilato dall’attuale capo della Mobile di Torino Luigi Silipo che confermerebbe la pericolosità della loro frequentazione, ma Cisterna si è imbufalito e ha querelato il funzionario, incassando una denuncia di calunnia da parte di Silipo e una conseguente assoluzione, anche se il pm della procura di Reggio Matteo Centini aveva chiesto per Cisterna una condanna a due anni.

Il problema è che c’è di mezzo anche un pm che indaga(va) sulla presunta trattativa Stato-mafia, legato a doppio filo con Cisterna e Lo Giudice: si chiama Gianfranco Donadio e secondo Lo Giudice  gli avrebbe chiesto di accusare falsamente Berlusconi e Dell’Utri, oltre ad altre persone a lui sconosciute. Ma cosa c’entra Cisterna con la mafia? Bisogna ricordarsi che l’ex braccio destro di Pietro Grasso era stato sentito dai magistrati della Procura di Palermo, come persona informata sui fatti perché, come viceprocuratore della Dna, sarebbe venuto a conoscenza di episodi inediti che avrebbero preceduto la cattura di Bernardo Provenzano. Grasso aveva delegato proprio Cisterna ai rapporti con la Procura di Palermo, compito poi interrotto a seguito del procedimento disciplinare scaturito dall’inchiesta per corruzione in atti giudiziari istruita dalla Procura di Reggio, all’epoca guidata da Pignatone.

Cisterna è innocente, l’inchiesta è stata archiviata e molti punti restano tutti da chiarire, anche perché sull’inchiesta Stato-mafia (e sul ruolo della ‘ndrangheta in quegli anni, soprattutto) è tutto in divenire. Ma se ci fossero altri magistrati in riva allo Stretto collusi con le cosche?

 

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