Il re è morto, viva il re. Giuseppe Scopelliti (di cui qualcuno mi accusa di non volermi occupare, spero che adesso sia contento) non è più il governatore della Calabria.

La condanna a sei anni che gli ha segato i piedini della poltrona di presidente è legata ai bilanci traballanti del Comune di Reggio Calabria, città commissariata per dissesto e sull’orlo del default definitivo, che lui avrebbe firmato sapendo – questa è la tesi dei pm avallata dalla sentenza di primo grado emessa giovedì sera – che erano falsi, pieni di fatture gonfiate da quella dirigente del Comune – Orsola Fallara, morta suicida in circostanze tutte da chiarire – che prima di sparire per sempre insieme ai suoi segreti aveva scagionato lo stesso Scopelliti dalle accuse di aver partecipato – o quanto meno chiuso un occhio – alla depredazione delle casse comunali. Che oggi sono disastrate, tanto che si è reso necessario far scattare il commissariamento per scongiurare (forse) il crac finale.

Scopelliti si è dimesso, e forse si candiderà alle Europee («Lavoreremo e torneremo in campo come sempre a combattere la battaglia da postazioni e con ruoli diversi», ha detto l’ormai ex governatore), dove la tagliola della legge Severino non scatta – visto che siamo al primo grado – anche per dimostrare ai suoi avversari (e perché no, anche ai suoi alleati) quanto vale ancora. A questo punto per capire se la città crede a Scopelliti o ai magistrati bisognerà aspettare il verdetto delle urne: «Le sentenze vanno rispettate sopratutto quando si è uomini delle istituzioni – ha detto il governatore ai giornalisti – ma questa sentenza clamorosa che lancia un messaggio inquietante e pericoloso per tutti gli amministratori del Paese, anche al centrosinistra che ha poco da gioire. Ho firmato gli stessi atti che ha firmato il sindaco facente funzione che mi ha sostituito».

In questi casi si dice vox populi, vox dei. Chi ha rispetto per le sentenze deve averlo anche per la presunzione d’innocenza e per le regole della democrazia. A meno che non si pensi che un’eventuale suffraggio importante a Scopelliti, che aveva vinto le elezioni con il 70% ma che difficilmente potrà ripetere questo exploit elettorale sia figlio delle clientele, del malcostume, dei capobastone eccetera.

Il punto è questo: i cittadini di Reggio Calabria sono liberi di scegliere? Lo sono stati in questi anni, quando il tanto sbandierato Modello Reggio imperava? Scrive Claudio Cordova qui:  «La comunità, infatti, è quella reggina, che ha votato (e stravotato) Scopelliti, non una, non due, bensì tre volte. Una comunità che, se si andasse a votare domani probabilmente andrebbe nuovamente a rinnovare la fiducia nei confronti di una gestione politica che ha ridotto Reggio Calabria nelle condizioni in cui è». Ha ragione?

La questione chiave è il controllo del territorio, che nessun commissariamento e finanche nessun carrarmato potrà restituire. Anzi, tornando con la mente ai moti degli anni Settanta, forse è questa l’origine di tutti i guai. Quando lo Stato mostra il suo volto più feroce, con un mezzo blindato o con un commissario prefettizio o peggio ancora con una sentenza che qualcuno dice essere viziata da un tribunale partigiano si ottiene l’effetto contrario.Non è importante che sia vero, e non credo lo sia, il problema è seminare il dubbio che lo Stato giochi una partita violando le regole. Se si pensa a come sono andate le cose però il sospetto c’è.

Secondo un’indagine Demoskopica la ‘ndrangheta genera lo stesso fatturato di Deutsche Bank e McDonald’s messi insieme: 53 miliardi di euro e 60 mila affiliati con 400 ‘ndrine operative in 30 Paesi al mondo. Nella sola provincia di Reggio risulterebbe attualmente operanti ben 74 ‘ndrine con una presenza attiva di un esercito di circa 10 mila ‘ndranghetisti. Diecimila. Quanti voti spostano diecimila ‘ndranghetisti? Dieci a testa? Fa centomila. Allora?

Non si può pensare che il territorio non sia condizionato. Ho letto qualche agenzia sugli arresti a Stefanaconi, in provincia Vibo Valentia, di qualche giorno fa: lì secondo gli inquirenti la costa dei Patania dava prova del potere assoluto decidendo persino l’itinerario delle processioni, l’Affruntata su tutte. Lo squarcio raccontato dalla collaboratrice di giustizia Loredana Patania al sostituto procuratore della Dda, Simona Rossi, rivelerebbero anche il ruolo di un ex parroco indagato perché avrebbe fornito informazioni alla cosca attraverso un ex maresciallo dei carabinieri radiato dall’Arma per aver spifferato le informazioni ai Patania. E a chi si metteva di traverso il boss ordinava: «Non mi toccate la festa sennò ve la facciamo pagare».

Ma davvero Reggio è come Stefanaconi? Ci sarà il funerale politico di Scopelliti o ci sarà di nuovo un’intera città in processione da Peppe?