Tra qualche ora, come avevo scritto nei giorni scorsi, uscirà la sentenza d’appello sull’ex giudice del Tribunale di Reggio Calabria Vincenzo Giuseppe Giglio e sull’ex consigliere regionale calabrese del Pdl Franco Morelli, condannati in primo grado rispettivamente a 4 anni e 7 mesi e a 8 anni e 4 mesi. L’ex magistrato è accusato di corruzione, rivelazione del  segreto d’ufficio e favoreggiamento aggravato, mentre Morelli di concorso esterno in associazione mafiosa (un reato di cui qualche procura comincia a dubitare) e corruzione. La richiesta di ricusazione dei giudici aveva già fatto slittare l’udienza in programma la scorsa settimana. Il processo in appello rischiava quindi, in caso di accoglimento, di dover ripartire dal principio davanti a un nuovo collegio giudicante. Poi c’è il caso del giudice Giancarlo Giusti e delle pressioni della cosca Bellocco la cui ombra aleggia su questo come su altri procedimenti.

Ma nel giorno in cui si decidono le sorti di uno dei filoni della ‘ndrangheta a Milano su cui comunque nutro qualche dubbio ci sono altre tre storie che meritano una riflessione. La prima riguarda la clamorosa assoluzione dopo 16 anni dall’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso quale presunto affiliato alla «cosca Albanese». La vittima della giustizia, perché è questo che ha sancito la Cassazione, si chiamaVincenzo De Moro, abitante di Cittanova, piccolo centro in provincia di Reggio Calabria, arrestato nel 1998 per associazione a delinquere di stampo mafioso.

Dopo 16 anni la VI sezione penale della Suprema corte ha fatto cadere tutte le accuse perché il fatto non sussiste. Nel novembre del 1998 l’uomo viene arrestato perché considerato contiguo al clan di Cittanova e Molochio in faida con la cosca rivale dei Facchineri. De Moro resterà in custodia cautelare in carcere (e sottolineo cautelare) dal 4 novembre 1998 al 25 ottobre del 2000. Assolto in primo grado, condannato in appello, De Moro attraverso i legali fa ricorso in Cassazione contro la motivazione della condanna: ricorso accolto, nuovo processo e reato di associazione a delinquere di stampo mafioso derubricato in favoreggiamento, peraltro dichiarato prescritto. Fine? No, perché i legali insistono: nuovo ricorso alla Suprema corte e assoluzione piena con la formula «perché il fatto non sussiste».

Seconda storia, secondo personaggio. Pasqualino Marando era il boss di una famiglia calabrese radicata a Volpiano (Torino) che scomparve in circostanze misteriose nel 2001. A lui sarebbe riconducibile un patrimonio ’ndranghetistico pari a 65 miliardi di vecchie lire, frutto in gran parte del traffico di stupefacenti ma probabilmente anche di sequestri di persona come quello di Cesare Casella.

A spartirsi questo bottino, frutto secondo i pm di Torino di una serie di riciclaggi, sarebbero rimasti in cinque, tra cui due educatori in servizio nel carcere romano di Rebibbia, dove un affiliato del presunto clan restò detenuto per qualche tempo, e un sacerdote torinese che fu socio della Green Farm, una società utilizzata – secondo l’accusa – per gestire una parte del patrimonio.

Qual è il punto? Il punto è che una parte delle persone coinvolte nel processo ha scelto il rito abbreviato e, in appello, è stata assolta: la tesi di uno dei difensori, l’avvocato Wilmer Perga, è che il riciclaggio è punibile solo se si configura come utilizzo di denaro o di beni provenienti da un delitto in cui non si è coinvolti. Potrà il processo ordinario discostarsi dalla tesi emersa nel filone parallelo deciso in abbreviato? Si vedrà.

Terza storia, terzo personaggio. Vi ricordate Rosy Canale, l’ex simbolo antimafia indagata per appropriazione indebita dei fondi destinati alle iniziative dell’associazione Donne di San Luca nata dopo la strage di Duisburg? Bene, il suo avvocato Giancarlo Liberati ha rimesso il suo mandato perché «si è incrinato il rapporto di fiducia con l’assistita» dopo i ripetuti attacchi della signora Canale ai magistrati, anche sui social network.

Che cosa unisce queste storie? Il ruolo dei difensori. In due casi, quello di De Moro a Cittanova e del clan Marando a Torino, i legali si sono battuti come dei leoni per ottenere giustizia e per rivendicare un principio. Così si stanno comportando anche i legali del presunto boss Giulio Lampada, sul cui spessore criminale e ‘ndranghetistico ho più di un dubbio. Nell’ultimo caso, quello di Rosy Canale, il legale si è diciamo così «arreso» alle intemperanze verbali della propria assistita. Certo, le storie sono completamente diverse e imparagonabili ma secondo me unite da un filo logico. Quale?  Il diritto alla difesa.

Quello che fino a ieri sembrava un baluardo insormontabile negli ultimi quattro o cinque anni, soprattutto quando si parla di ‘ndrangheta, è diventato diciamo così merce di scambio. Mi spiego meglio: molti legali di presunti boss sono finiti nel tritacarne mediatico perché accusati di essere parte integrante dell’altrettanto presunto meccanismo affaristico-mafioso (da queste parti vale sempre la presunzione d’innocenza).

Altri sono stati spiati, anche durante i colloqui con i propri assistiti, poi indagati – anche per rendere probanti certe intercettazioni – e messi sotto processo. Penso non a caso a Vincenzo Minasi, vicino al cosiddetto clan Valle-Lampada di cui sopra, finito in carcere nel novembre 2011 e condannato 13 mesi dopo a quattro anni e quattro mesi di carcere per aver compiuto «una serie di comportamenti consapevolmente finalizzati ad aiutare i componenti del contesto associativo, provando così una chiara partecipazione esterna all’associazione ‘ndranghetista» e a una maxi multa da 30mila euro per aver ostacolato «le finalità statutarie attuate dal Comune di Milano e volte a impedire l’infiltrazione e il radicamento della criminalità organizzata».

Se anche i legali finiscono per diventare zona grigia è la fine, ovvio. Forse il caso di Minasi è border line, perché a leggere certe motivazioni si resta un po’ sorpresi: «Nel corso di alcune riunioni si discuteva sulle tecniche da adottare in una situazione di evidente emergenza per il gruppo criminale», tanto che «spesso Minasi ospitava Giulio e Francesco Lampada, nonché Leonardo Valle, anche presso la sua abitazione di Fino Mornasco, al fine di trattare argomenti riservati».

Certo, Minasi sarebbe stato anche strumento per veicolare notizie giudiziarie riservate assieme all’imprenditore calabrese Domenico Gattuso, e addirittura consulente immobiliare per aggirare la confisca dei beni assieme a tale Daniele Borelli, un commercialista di Lugano suicidatosi dopo l’arresto di Minasi il 30 novembre 2011. Basta a definirlo concorrente esterno a un’associazione mafiosa? Per i giudici sì, nel momento in cui la ‘ndrangheta è «un complesso sistema di relazioni tra individui legati da forme di forte solidarietà e cooperazione finalizzate al perseguimento anche di differenti interessi individuati», come si legge nella sentenza di condanna di Minasi.

Se Minasi è colpevole si saprà solo dopo la Cassazione. Ma queste storie insegnano che si possono difendere i (presunti) mafiosi senza essere contigui alle cosche. E qualche volta si può anche vincere. A patto che i pm rispettino sempre, e fino in fondo, quel baluardo chiamato diritto alla difesa.

PS La Corte d’Appello di Milano ha condannato Giglio e Morelli rispettivamente a 4 anni e 5 mesi e a 8 anni e 3 mesi, riducendo lievemente le pene inflitte in primo grado. A Giulio Lampada 14 anni e 5 mesi, una condanna che ha fatto infuriare i legali: «Lascia sconcertati l’affermazione di un metodo mafioso non violento che equivale all’assoluta negazione di quanto afferma la norma, che prevede invece una forza di intimidazione capace di ridurre la popolazione all’omertà ed a uno stato di soggezione – dice il difensore del presunto boss, l’avvocato Giuseppe Nardo, che annuncia ricorso in Cassazione – siamo dinanzi a una sentenza che si pone in aperto contrasto con quelli che sono i principi giuridici affermati dalla Suprema corte».