La sua cosca di Pellaro a Reggio Calabria è finita nel sangue, suo zio si è pentito, suo padre è stato ammazzato dalla ‘ndrangheta. E adesso per un ex boss pluriergastolano si aprono le porte del carcere. Santo Barreca ha 56 anni, ne aveva una trentina quando è stato arrestato la prima volta. Anche il gip ha scritto nero su bianco che il suo clan è «completamente estinto», gli avvocati Aurelio e Steve Chizzoniti da mesi lavoravano con il pm Giuseppe Lombardo per il suo «completo recupero al consorzio civile». Da tempo ogni sabato faceva il volontario in una comunità alloggio per anziani distante 40 Km dal carcere sardo in cui è rinchiuso. «Ci va con un mezzo pubblico libero e senza vincoli di sorta, esce la mattina alle otto per rientrare con le stesse modalità la sera», spiegano i legali, e ha anche un cellulare. Insomma, Barreca è pronto a tornare a una vita normale.

La sua cosca che spadroneggiava nella periferia sud di Reggio Calabria è stata spazzata via dopo la guerra di ‘ndrangheta a metà degli anni Ottanta per il pentimento del boss Filippo Barreca, zio di Santo. Il delitto più eccellente che si è consumato nella loro zona di appartenenza è stato quello del presidente delle Ferrovie dello Stato, Lodovico Ligato, ex stella nascente della Democrazia cristiana ammazzato con una Glock il 28 agosto 1989 a Bocale di Reggio Calabria. La pistola, come ha rivelato lo stesso Santo Barreca, è stata custodita per anni dal padre Vincenzo Barreca, fratello del pentito di ‘ndrangheta Filippo, convinto che quell’arma fosse una sorta di assicurazione sulla vita. L’omicidio Ligato era stato deciso dalla cosca Condello perché l’uomo politico era legato a doppio filo ai De Stefano, cosca rivale dei Condello. Il pentimento di Filippo Barreca ha portato a una serie di condanne per l’omicidio, e il fratello Vincenzo – solo dopo i verdetti definitivi della Cassazione – ha pagato il prezzo della vendetta dei clan: è stato ucciso la sera del 9 marzo 2002 da un killer che gli ha sparato una decina di colpi di pistola alla testa mentre si trovava dal barbiere, proprio nel quartiere Bocale di Reggio che una volta era il suo feudo.

Già, perché – come dimostra una recente sentenza del tribunale di Reggio Calabria – a Pellaro e Bocale comandava il presunto boss Giuseppe Ficara (che si è beccato 16 anni) e i suoi gregari della cosca Latella-Ficara, che dopo il pentimento del boss Filippo Barreca avevano allargato la loro area di influenza criminale dalla Vallata del Valanidi appunto fino a Pellaro.

Di rapporti tra politica e ‘ndrangheta si continua a parlare ancora oggi, al processo all’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola, accusato di aver agevolato la latitanza dell’ex armatore reggino Amedeo Matacena jr, anch’egli ex deputato azzurro, oggi a Dubai nonostante una condanna a 5 anni per concorso esterno. Matacena minaccia rivelazioni scottanti («Se dovesse succedere qualcosa a me o ai miei familiari verrebbero ufficializzati e pubblicati in Italia i numeri dei conti correnti svizzeri in cui sono state depositate le somme delle tangenti dell’affare Telekom Serbia, prese da tre noti esponenti della politica italiana», ha detto qualche giorno fa all’Ansa), la diplomazia è al lavoro per un accordo sull’estradizione mentre Scajola, che per l’accusa si sarebbe mosso per farlo fuggire a Beirut, aspetta il verdetto del processo: «Comprendo le difficoltà di Matacena – ha commentato – ma mi auguro che questo processo si celebri sui fatti e sulla concretezza degli atti».

E quali sarebbero i fatti? Secondo il vicequestore della polizia Leonardo Papaleo, che da numero due della Dia di Reggio Calabria ha condotto personalmente le indagini, Scajola avrebbe tentato di garantire a Matacena e ai suoi familiari – su tutti la moglie dell’ex armatore, Chiara Rizzo, anch’ella alla sbarra – la sicurezza economica e la copertura in Libano attraverso l’imprenditore catanzarese residente a Beirut Vincenzo Speziali. Secondo le intercettazioni delle telefonate tra i due, Scajola, se eletto al Parlamento europeo (la candidatura poi sfumò) avrebbe promesso di voler dare oltre quindicimila euro alla Rizzo per consentire alla donna di affittare un immobile a suo nome a Montecarlo. Il processo riprenderà il prossimo 8 aprile, quando verrà riunificato con quello di Chiara Rizzo (che aveva scelto il rito abbreviato), saltato per un impedimento dei suoi difensori.

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