Stragi (e servizi segreti), famiglie e faide, grandi opere e appalti, cocaina. In fondo la storia della ‘ndrangheta si regge su questi quattro pilastri. Non è un caso se la Dia di Roma abbia sequestrato beni per circa 6 milioni di euro ad Alfredo Bizzoni, imprenditore romano coinvolto secondo gli inquirenti in compiti di supporto logistico nella preparazione delle stragi mafiose del 1993 e condannato per aver reperito e consegnato armi e munizionamento ad Antonio Scarano, pluripregiudicato romano di origine calabrese, poi divenuto collaboratore di giustizia e condannato a 18 anni come responsabile (in concorso con altre persone) degli attentati dinamitardi di mafia avvenuti nella Capitale, a Firenze e a Milano nel 1993.

È la stagione stragistra con finalità eversive che ha seguito quella degli anni Settanta: due periodi che sarebbero legati da un’unica trama e che avrebbe come protagonisti apparati deviati dello Stato e della mafia, almeno secondo l’analisi del colonnello dei carabinieri Michele Riccio, che sta deponendo al processo d’appello per favoreggiamento aggravato alla mafia all’ex generale Ros Mario Mori e al colonnello Mauro Obinu, entrambi assolti in primo grado. Riccio riferisce le confidenze dell’ex braccio destro del boss Piddu Madonia, al secolo Luigi Ilardo, che si è pentito grazie alla collaborazione con lo stesso Riccio.

Quando si parla di rapporti tra mafiosi e servizi segreti deviati la ‘ndrangheta salta sempre fuori, come ho già scritto qui, qui e qui, e chissà che prima o poi la verità sul ruolo delle famiglie calabresi nei grandi misteri d’Italia non salti definitivamente fuori.

La mafia calabrese, come è noto ai lettori di questo blog, preferisce sfuggire alla luce dei riflettori, meno che mai uccidere. Perché il sangue attira sbirri e giornalisti. Lo sapeva bene anche Francesco Barone, 22 rampollo di una famiglia di ‘ndrangheta di Rosarno, vicino Gioia Tauro, che secondo gli inquirenti calabresi ha ucciso sua madre Francesca Bellocco perché intratteneva una relazione col boss di un’altra famiglia mafiosa e poi avrebbe occultato il cadavere.

Quale sarebbe la colpa della donna? Aver infranto una delle regole della ’ndrangheta: avere una relazione sessuale con un boss Domenico Cacciola, guarda caso anch’egli scomparso a metà del 2013 a Como. A segnalare la sparizione della madre è stato lo stesso Barone assieme al padre Salvatore. Ma per gli investigatori sarebbe stato lui ad avere assassinato la donna «alla testa di un commando di sicari» – dicono gli investigatori – per punirla per una relazione extraconiugale. Nelle indagini è emersa anche la telefonata della
vittima con il marito nella quale riconosceva di avere sbagliato, poi
il figlio, strappando il telefono dalle mani della madre, diceva al
padre «mamma non si sente bene» mentre lei disperata replicava «non è vero». L’amante invece è un parente di Maria Concetta Cacciola, testimone di giustizia morta il 20 agosto 2011 per avere ingerito acido muriatico ma che, secondo la Corte d’assise di Palmi, sarebbe stata uccisa dai suoi stessi famigliari dopo il suo pentimento, la successiva ritrattazione (su pressioni dei familiari, ovviamente) e il disperato e inutile tentativo di tornare nel programma di protezione dei testimoni al grido di «O cu nniu o cu iddi» (o con noi con loro, come ricorda Un giorno in pretura che si è occupata del processo qui e qui). Di Cacciola non si hanno più notizie da allora, anche se si ha certezza della sua fuga dalla casa della donna, visto che alcune ore dopo provò a contattarla telefonicamente senza riuscirci. E nessun suo congiunto ha mai presentato denuncia di scomparsa.

L’arresto del ragazzo è stato possibile grazie anche alla collaborazione di un vigile urbano che abitava accanto alla residenza estiva della donna, e che oggi vive sotto protezione con la famiglia e con nuove identità in una località segreta, come ha sottolineato il procuratore capo Federico Cafiero De Raho, stupido dalla ricostruzione della mattanza: «Non riesco ad immaginare come possano essere rotti, piegati i sentimenti tra una madre ed un figlio, al punto da togliere la vita a chi ha dato la vita».

Secondo la ricostruzione dei magistrati la donna fu portata via, non si sa se già priva di vita, dalla sua abitazione estiva, la mattina del 18 agosto 2013 a bordo di due auto con tre persone a bordo, armate e con il passamontagna e con lo stesso Francesco Barone. «Pirdunatimi!», sarebbe stata l’ultima implorazione della donna ai suoi assassini, secondo la testimonianza dell’ex vigile.  Per evitare di essere coinvolto nell’omicidio della madre e darsi un alibi, il ragazzo tre giorni dopo la scomparsa si sarebbe recato nel Bresciano dove il padre Salvatore Barone stava scontando la sorveglianza speciale di Ps, e solo allora si sarebbe recato dai carabinieri per denunciare l’allontanamento della donna.

Saranno i magistrati a far luce sui veri motivi della morte della Cacciola e della sfortunata donna di ‘ndrangheta, forse uccisa dal figlio in nome di un codice arcaico che governa la holding internazionale del crimine più potente del mondo. Un compito difficile, specie nel clima impossibile che si respira a Reggio Calabria. Non bastavano le faide tra toghe o il suicidio del giudice Giusti.  Persino il Procuratore generale di Reggio Calabria, Salvatore Di Landro (che già ha subito un attentato) è stato minacciato telefonicamente da una donna la quale ha sostenuto che è la sua vita è stata rovinata da un provvedimento giudiziario. La donna al telefono ha affermato di essere pronta a «fare una strage peggio di quella di Milano».

Già, Milano. A una manciata di giorni dall’inaugurazione di Expo si torna a parlare delle infiltrazioni della ‘ndrangheta nei cantieri: «Le mafie sono presenti in Lombardia ed in Piemonte da oltre 40 anni e da 30 anni in Emilia Romagna. Su Expo la ndrangheta c’è, così come è stata presente nell’Alta velocità, nel riammodernamento dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria e nelle grandi opere. Perché è anche una questione di potere, non è soltanto un fatto di guadagno. Potere rispetto alle altre organizzazioni criminali», ha detto il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri intervenendo a Coffee Break su La7 per presentare il suo libro Oro bianco scritto insieme ad Antonio Nicaso. Stragi (e servizi segreti), famiglie e faide, grandi opere e appalti, cocaina. Così la ‘ndrangheta prospera. Ma guai a dirlo in giro…

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