Per la ‘ndrangheta le vacche sono sacre, i fratelli un po’ meno. Facciamo un po’ d’ordine. In Calabria si discute dell’ordinanza con cui il prefetto di Reggio Calabria ha deciso l’abbattimento delle cosiddette «vacche sacre», vale a dire di quei capi di bestiame di proprietà della ’ndrangheta che vagano per le strade e che mettono a rischio l’incolumità di chi viaggia in macchina nei territori preaspromontani e che sono ritenuti «intoccabili» per il timore di ritorsioni. Qualcuno sostiene che questa decisione «sia un ulteriore segnale che lo Stato mette in campo per far sentire la sua presenza in aree storicamente complesse della Calabria», come il sindaco di Cittanova Cosentino. A me pare che prendersela con un povero animale innocente sia una barbarie, e che ogni volta che lo Stato fa la faccia feroce fa ridere e fa il gioco della ‘ndrangheta. Pensare a sequestrarle, magari, sarebbe un atto di buon senso.

Intanto la ‘ndrangheta fa affari mentre gli inquirenti, solo dopo un complesso lavoro investigativo, tentano di stare dietro al fiume di denaro sporco generato dai traffici delle ‘ndrine.

L’operazione Andromeda della squadra mobile di Catanzaro ha permesso di ricostruire gli affari di una potente cosca del Lametino e i retroscena della vicenda che qualche anno fa aveva portato al furto della bara dell’imprenditore Antonio Perri del clan Iannazzo, ucciso nel 2003 dal clan rivale dei Torcasio. In messo, secondo le ipotesi degli investigatori, la faida aveva coinvolto anche le ’ndrine della provincia di Reggio Calabria – che per chi non lo sapesse sono le più potenti e le più influenti – intervenute per mediare la guerra di mafia che si stava scatenando. Perché, come non mi stancherò mai di scrivere, la guerra di mafia danneggia gli affari, il sangue attira come mosche i giornalisti e gli sbrirri, i riflettori si riaccendono e la pubblicità negativa nuoce al sistema.

Franco Perri, titolare del centro commerciale «I due mari» di Lamezia Terme, dirigente di primo piano della Vigor Lamezia e figlio del defunto boss Antonio, sarebbe un esponente di spicco della cosca Iannazzo. «Con la realizzazione del centro commerciale – ha detto il procuratore capo Vincenzo Antonio Lombardo – le attività economiche si sono spostate dalla zona centrale di Lamezia, sotto il controllo dei Torcasio, all’area di Maida, controllata dal clan Iannazzo. E quando i Torcasio provarono a minacciare i titolari degli esercizi nel centro commerciale di Maida, nessuno pagò perché si sentivano protetti dalla cosca rivali».

Insomma, la famiglia aveva il controllo quasi totale delle attività imprenditoriali esistenti. E chi non era taglieggiato era colluso. Chi voleva costruire un centro commerciale (la Lidl) non poteva. È una «mafia imprenditoriale» alla quale siamo abituati, come dimostra l’inchiesta sul centro commerciale Annunziata di Gioia Tauro La guerra sembrava inevitabile, la sparizione della bara del capoclan aveva scatenato gli Iannazzo con alcuni omicidi. E proprio la bara, secondo quanto ricostruito da Lombardo, sarebbe stata al centro della «pax mafiosa», negata fino alla restituzione della salma trafugata alla famiglia.

Nella ricostruzione si parla anche del ferimento del fratello di Franco Perri, Marcello, con un «avvertimento» che sarebbe stato organizzato insieme a Vincenzino Iannazzo e Antonio Muraca per non meglio precisati motivi economici. I fratelli sono meno sacri delle vacche.

Ps. Il deputato Pd Davide Mattiello, molto attivo sui temi antimafia, annuncia l’intenzione della commissione Antimafia di indagare sui collaboratori di giustizia. «Approfondirei in particolare la situazione dei collaboratori di ’ndrangheta, che ci sono e che hanno contribuito a smantellare diversi clan, in Calabria come in Piemonte – ha ribadito – nemmeno la ’ndrangheta è granitica. Vogliamo capire cosa sta succedendo, cosa si possa migliorare e come lo Stato tuteli se stesso dal rischio di collaborazioni corrotte, volte a coprire altri giochi criminali e a infangare personale delle istituzioni». Era ora, mi permetto di dire.

Pps. Intanto il tribunale di Catanzaro ha deciso di non chiudere il processo al giudice Giancarlo Giusti «per morte del reo», imputato per corruzione aggravata a seguito dell’inchiesta antimafia della Dda di Reggio Calabria denominata «Abbraccio». Giusti era stato trovato impiccato nella sua casa di Montepaone Lido pochi giorni dopo la conferma della condanna a 4 anni di reclusione per corruzione aggravata dalla finalità. La verità sul suo ruolo al tribunale del Riesame di Reggio Calabria, dove avrebbe favorito la scarcerazione di alcuni elementi di spicco della cosca di ’ndrangheta dei Bellocco di Rosarno, in cambio di denaro, non si saprò mai. Anche il suo sucidio è ancora avvolto nel mistero.

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