Qualche giorno fa Roberto Saviano su Repubblica ha detto una frase che mi ha colpito: «Dal Sud ormai non scappa più soltanto chi cerca una speranza nell’emigrazione – sostiene l’autore di Gomorra – dal Sud stanno scappando perfino le mafie che qui non “investono” ma depredano solo. Portando al Nord e soprattutto all’estero il loro sporco giro d’affari. Sì, al Sud non scorre più nemmeno il denaro insaguinato che fino agli anni ’90 le mafie facevano circolare». Non sono d’accordo con la sua analisi, che discende da un doppio errore in cui cadono spesso giornalisti meno esperti di lui in cose di mafia: non esiste una sola mafia. E soprattutto non esiste un solo Sud. Prendete Mafia capitale a Roma: «Dalle indagini risulta in modo chiaro come sia il prodotto originale e originario dell’evoluzione di alcuni ambienti della criminalità romana – sottolinea il prefetto di Roma Franco Gabrielli davanti alla commissione Antimafia – ne è una sintesi la figura del suo leader indiscusso, Massimo Carminati». Poi Gabrielli aggiunge: «Il degrado urbano non solo incide sulla qualità della vita, ma rischia di alimentare il terreno di coltura della criminalità organizzata». È questa la prima verità che Saviano finge di non ricordare: è nel degrado che attecchisce la mafia, è nella povertà che Cosa nostra fa valere il suo potere di sostituirsi allo Stato e di controllare un’economia parallela, o per meglio dire un welfare parallelo, in grado di dare una risposta ai bisogni delle persone più immediato ed efficace rispetto allo Stato. Se investi i tuoi capitali al Sud, se lo allinei al resto del Paese, viene meno l’elemento del degrado.
Penso a quello che succede in Calabria. Lì l’investimento, o meglio la speculazione, serve solo a finanziare la manovalanza: camerieri, pizzaioli, baristi, ristoratori prestanome, imprenditori teste di legno. Posti di lavoro in società e imprese che non starebbero in piedi se non grazie al riciclaggio e all’autoriciclaggio, cioè a quel meccanismo che consente di immettere capitali sporchi (come i proventi del narcotraffico) nei circuiti legali. E che infatti, una volta confiscati e dati in gestione allo Stato, non riescono a sopravvivere perché manca l’elemento che li tiene in piedi: il contante nascosto nei cassetti che si trasforma in scontrini finti che servono a reimmettere i soldi sporchi in circolazione pagandoci le tasse. Che è sempre più conveniente che riciclarli in altri modi…
È quello che sta succedendo a Roma, come conferma Gabrielli: «Articolata è la presenza della ‘ndrangheta nel settore del riciclaggio con l’acquisizione di immobili e attività commerciali, con ‘ndrine del vibonese, del crotonese e del reggino che hanno intessuto rapporti con i sodalizi romani, soprattutto con i Casamonica». Dunque il riciclaggio funziona anche – e soprattutto – al Nord perché banalmente fare questo genere di affari dove c’è ricchezza è meno complicato, fa meno rumore.
Che il Nord sia stato contaminato dalle mafie, dalla ‘ndrangheta in particolare, è un tassello del puzzle ma non si deve perdere di vista l’elemento del «territorio». Non esiste ‘ndrangheta senza Calabria, e non credo che per la camorra o per la mafia sia diverso, e lo dimostra la retata in Sicilia dei presunti fiancheggiatori di Matteo Messina Denaro, latitante ma forse non all’estero (come dicono gli inquirenti, forse per depistare il superboss) grazie anche a una potente rete di protezione.
Forse Saviano quando parla di mafia in fuga dal Sud pensa alla camorra, che probabilmente ha esaurito la sua missione predatoria e che cerca altri mercati, come un cancro che si è divorato un organo e ha bisogno di attecchire altrove per sopravvivere. Se è vera la storia della Terra dei fuochi, che cioè la camorra ha avvelenato pezzi della Campania infarcendoli di scorie radioattive e rifiuti tossici, è facile pensare che alla camorra convenga fuggire dal suo territorio. Di fronte a questo sfregio forse la mafia campana ha perso il rispetto di chi, con il suo silenzio e la sua rassegnazione fatalista tipica del Meridione, ha accettato che la camorra risolvesse i problemi che lo Stato creava. Il patto si è spezzato, forse per sempre.
Se venisse fuori che anche in Calabria esiste una Terra dei fuochi, come qualche inchiesta comincia a sostenere, sarebbe l’inizio della fine della ‘ndrangheta.
Saviano ha ragione invece quando dice che gli elettori del Sud «vendono» il loro voto al miglior offerente. Perché il voto è l’unica cosa monetizzabile che fa gola – ciclicamente – a quelle consorterie in odore di ‘ndrangheta che flirtano con la classe politica e che promettono pacchetti di voti in cambio di qualche favore. «Se qualcuno ci chiama e chiede il nostro intervento, noi andiamo anche nel Mezzogiorno», ha detto Salvini. Vorrei sapere cosa aspetta ancora a farlo…

Ps: secondo il rapporto sui giornalisti minacciati dalla mafia non esistono «zone franche»: solo in Valle d’Aosta e Molise i cronisti sono liberi di fare il loro lavoro. Non è un caso se il Lazio è la regione più a rischio con 26 cronisti nel mirino della criminalità organizzata. Sono 20 in Campania, 18 in Puglia e altrettanti in Lombardia secondo i dati di Ossigeno per l’informazione ma le zone dove l’informazione libera è più sotto assedio sono la Calabria e la Sicilia. Il presidente dell’osservatorio sulla libertà di stampa Alberto Spampinato sostiene che per avere un quadro veramente realistico delle minacce bisognerebbe «moltiplicare per dieci i casi noti, arrivando ad almeno 4mila vittime dirette e indirette su 110mila giornalisti iscritti all’Ordine».

I cronisti sotto scorta sono 30, l’ultimo in ordine di tempo è Sandro Ruotolo di Servizio Pubblico, 11 quelli uccisi in Italia dalle mafie e dal terrorismo. Non parliamo delle cosiddette querele temerarie, avviate solo per imbavagliare i giornalisti, vizietto in cui a volte sono caduti anche certi magistrati. E poi ci sono anche «episodi di millantati rischi»: ci sarebbero dei sedicenti cronisti antimafia che fingono di essere minacciati. È vero che la finta antimafia fa più schifo della mafia.