Non si spengono le polemiche sulla presenza dei Casamonica in tv. Intendiamoci subito: i giornalisti fanno il loro mestiere, che è raccontare la verità. Vespa l’ha fatto, amen. Le vestali dell’informazione che si stracciano le vesti dimenticano che senza i giornalisti il funerale da Papa con elicottero, carrozza trainata da cavalli e la sigla del Padrino non sarebbe finito ovunque, da internet ai giornali.
Condivido però anche la posizione di Pino Masciari, che ce l’ha con la tv pubblica «che dà spazio a famigliari di boss liberi di sbeffeggiate i cittadini onesti, magari le stesse vittime del clan» mentre «si lasciano dietro le quinte gli esempi veri di persone che lottano per lo Stato, i testimoni di giustizia e uomini in prima linea nella lotta alle mafie, disoccupati, padri di famiglia, precari e cittadini onesti che invece meriterebbero ogni attenzione». Certo, se la persona onesta da portare in tv come icona antimafia è Massimo Ciancimino allora fa bene Maurizio Gasparri a indignarsi: «Quelli che hanno taciuto quando la Rai di Michele Santoro, Ruotolo e company ospitava Ciancimino junior, che ha usato il servizio pubblico per difendersi da accuse poi rivelatesi fondate dovrebbero tacere sul caso Vespa-Casamonica».

La verità è che quando si parla di mafia e antimafia, tutto si mescola, cio che dovrebbe aiutarci a distinguere il bianco dal nero diventa una melassa di grigio in scala. Prendete, per esempio, quello che sta succedendo in Sicilia. Il presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, Silvana Saguto, è sotto inchiesta per corruzione, induzione e abuso d’ufficio assieme al marito, l’ingegnere Lorenzo Caramma, e all’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, titolare di uno studio a cui è affidata la gestione di diverse aziende confiscate, da cui Caramma avrebbe avuto delle consulenze. L’affidamenti dei beni sequestrati alla mafia è un business enorme, soprattutto in Sicilia, dove – come i maligni mormorano – sarebbe in mano a pochi professionisti che ne avrebbero ricavato «parcelle d’oro», come aveva denunciato l’anno scorso il prefetto Giuseppe Caruso, a quel tempo direttore dell’Agenzia dei beni confiscati. Parliamo di 30 miliardi di euro, di cui quasi la metà – il 43 per cento – si trova in provincia di Palermo. Se i tre personaggi dovessero venire condannati in via definitiva sarebbe una solenne bocciatura soprattutto per la commissione Antimafia guidata da Rosy Bindi, che dopo aver ascoltato in commissione la stesa Saguto, aveva sentenziato: «La gestione dei beni confiscati a Palermo è improntata alla massima correttezza, non ci sono elementi tali da inficiare condotte delle singole persone.

È noto cosa penso di questa commissione Antimafia, sulle patenti di legalità che ha fornito e sul curriculum non proprio specchiato di alcuni suoi componenti (il senatore Ncd Giovanni Bilardi che rischia l’arresto per una gestione allegra dei rimborsi ai gruppi consiliari in Calabria è l’ultimo esempio), cosa penso delle società sequestrate alla mafia anche. E ovviamente non credo, come dice il senatore Pd Giuseppe Lumia che «il riuso sociale e produttivo dei beni possa diventare una risorsa per lo sviluppo», anzi. I beni delle mafie, soprattutto le attività economiche, stanno in piedi solo perché riciclano il denaro del narcotraffico. Altro discorso è invece quello sui beni più squisitamente commerciabili: penso ai quadri che aveva il re dei videopoker di Reggio Calabria Gioacchino Campolo, innamorato dell’arte come il boss di Mafia Capitale Massimo Carminati, che secondo i pm romani avrebbe investito i soldi degli affari sporchi su Picasso, Keith Haring, Guttuso, De Chirico e tanti altri. Il suo patrimonio è stimato in 200 milioni di euro, ma c’è chi sostiene che una buona parte del suo tesoro sia sfuggito alle forze dell’ordine.

E intanto la ’ndrangheta se la ride: l’ultima inchiesta in ordine di tempo è quella che porta a Malta e al riciclaggio di denaro sporco attraverso le sale scommesse. «La ’ndrangheta ha scelto di giocare pesante con l’azzardo sul Web. A Malta, dove batte il cuore strategico e finanziario del betting targato ’ndrine, anche se per puntare sui tavoli che gli uomini dei clan hanno apparecchiato non c’è bisogno di spostarsi», scrive l’Espresso. Nelle agenzie gestiti da teste di legno delle cosche si giocavano migliaia di euro di denaro sporco «a perdere» che restavano nelle casse dell’agenzia diventando improvvisamente immacolati. «In quel fazzoletto di terra nel Mediterraneo le cosche di Reggio Calabria hanno piazzato il quartier generale di quella che per gli investigatori è una delle più grandi lavatrici di denaro sporco – scrive il settimanale – con affari, intrecci societari e complicità che lambiscono la politica e toccano gli ambienti finanziari maltesi», insiste il settimanale.

Non c’è da stupirsi. La ’ndrangheta è una holding internazionale del crimine più potente, a dispetto della classifiche del sito d’informazione finanziaria che la collocherebbero al 4° posto al mondo (dietro addirittura alla camorra, dilaniata dalle faide firmate dai giovani boss rampanti che stanno insanguinando la città, figuriamoci…) e che stima in appena 4,5 miliardi di euro il giro d’affari delle cosche calabresi. In realtà il Pil della ’ndrangheta è almeno 10 volte tanto grazie al traffico di cocaina sull’asse Calabria-Colombia che ha reso i clan calabresi sostanziali monopolisti nel narcotraffico.

I suoi tentacoli si allungano da Malta a Bogotà, da Reggio Calabria fino al Libano passando da Dubai, dove si trova latitante l’ex parlamentare azzurro Amedeo Matacena, condannato per associazione mafiosa e che sarebbe sfuggito alla cattura anche grazie a una presunta Spectre affaristico-mafiosa cui dà la caccia il pm reggino Giuseppe Lombardo e che in Italia avrebbe come suo terminale anche l’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola. La sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dai legali dell’ex deputato con il quale si chiedeva l’annullamento dell’ordinanza di custodia cautelare nell’ambito dell’inchiesta della Dda di Reggio Calabria che ha portato all’arresto della moglie dell’imprenditore, Chiara Rizzo, e dello stesso Scajola.

E mentre la ’ndrangheta ride e prospera la Calabria muore lentamente, ogni giorno che passa. Il maltempo ha messo in ginocchio le infrastrutture stradali e ferroviarie già fiaccate dall’incuria e dall’abbandono, al degrado civile e morale si aggiunge anche la crescente difficoltà di spostarsi in Calabria. Il degrado è il terreno su cui attecchisce la ’ndrangheta, rilanciare il sistema infrastrutturale Alta velocità-A3-Ponte sullo Stretto come sembra aver promesso il governo può essere la chiave giusta. «In Parlamento presenteremo una proposta di legge per realizzarlo anche se so che la sinistra si opporrà – ha detto il ministro dell’Interno Angelino Alfano – non è possibile che l’Alta velocità arrivi fino a Reggio Calabria e poi ci si debba “tuffare” nello Stretto, per poi rincominciare a viaggiare a… bassa velocità». La speranza è che non si tratti dell’ennesima promessa. Certo, visto l’interlocutore il sospetto è forte.

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