Può un boss di 88 anni tornare all’ergastolo per l’omicidio di un brigadiere dei carabinieri commesso 25 anni fa? Bisognerebbe chiederlo a Francesco Barbaro detto Cicciu u castanu, storico capo di una delle famiglie storiche della ‘ndrangheta protagonista della faida di Castellace contro i Mammoliti. Cicciu u castanu – che di anni di galera se ne è fatti già un bel po’ per una vecchia condanna a 25 anni per sequestro di persona è anche considerato l’ideatore del sequestro Sgarella) – è vittima di un combinato disposto e non può beneficiare dell’istituto del cumulo giuridico. Quindi anziché 30 anni dovrà scontare l’ergastolo. Fine pena mai a 88 anni.

A riprendere Barbaro a casa sono stati i carabinieri, in esecuzione della sentenza della Cassazione che ha confermato la condanna in appello a 30 anni di carcere per Barbaro e per il suo “collega” boss Antonio Papalia, che di anni ne ha 75, entrambi originari di Platì. La vittima si chiamava Antonino Marino, era stato ucciso a Bovalino, nella Locride, il 9 settembre 1990. Quella sera a in paese c’erano i festeggiamenti per l’Immacolata. Il brigadiere stava ammirando i fuochi d’artificio insieme alla moglie e al figlio quando è stato freddato. La sua colpa? Essere un carabiniere intransigente e tenace nel combattere le ‘ndrine della Locride quando era di stanza a Platì, nel cuore dell’Aspromonte.

A incastrare Barbaro e Papalia era stata una intercettazione contenuta nell’indagine «Platino», condotta sulla ‘ndrangheta del milanese su Buccinasco, dove le due famiglie sono di casa dopo la stagione dei sequestri degli anni Ottanta e Novanta. A parlare sono Agostino Catanzariti, storico uomo della cosca Barbaro-Papalia, e l’anziano boss Michele Grillo: «Il movente, perché dice che, nel paese, che perseguitava la famiglia Barbaro e menava sopra i Castanu e sopra di lui e di suo padre… Che dopo è stato … deciso per ammazzarlo, l’hanno trasferito e dopo … e là…», dice Catanzariti a Grillo, confermando la testimonianza (al tempo ritenuta insufficiente) di un vecchio pentito di ‘ndrangheta, Antonio Cuzzola, secondo cui i mandanti erano i due boss di Platì Papalia e Barbaro assieme al figlio Giuseppe Barbaro detto u sparitu e famoso perché durante la latitanza ebbe quattro figli.

Marino ha pagato la propria intransigenza tanto da venire trasferito nella Piana di Gioia Tauro, ma senza per questo riuscire a sfuggire alla vendetta dei boss della jonica. Come disse una volta lo stesso Papalia allo storico pentito di ‘ndrangheta Saverio Morabito «la ‘ndrangheta non dimentica. Prima o poi te la faranno pagare».

La lotta alla ‘ndrangheta non ammette debolezze. Ne sa qualcosa il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, che in ogni uscita pubblica non nasconde la sua amarezza per essere stato in predicato di fare il Guardasigilli nel governo di Matteo Renzi per poi essere giubilato, pare su pressione dell’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano: «Non ho fatto il ministro perchè sono un rompiscatole. Sono uno che dice quello che pensa, potrei stare zitto e se parlassi di meno sicuramente farei più carriera, ma non c’è cosa più bella e appagante che dire ciò che si pensa».

Gratteri è convinto di essere stato vittima di una congiura orchestrata da più soggetti («Quando uscì il mio nome tra i papabili ci fu molta gente che immagino che si sia mossa per dire che Gratteri non andava bene») ma non vuole per questo rinunciare alla sua indole anche se «crea nemici ed antipatie e, quindi, se possono te la fanno pagare e ti fanno muro quando, ad esempio, concorri a procuratore della Repubblica o come ministro».

L’altro sogno finora nel cassetto è quello di guidare la Procura di Reggio Calabria: «Penso che potevo aspirare a diventare procuratore di Reggio Calabria. Ora c’è Cafiero de Raho che è sicuramente un bravissimo procuratore, ma certo non può conoscere la ’ndrangheta come la conosco io. Quindi, forse potevo fare io il procuratore», ha ribadito Gratteri in una intervista al Tg3 Calabria ai microfoni di Riccardo Giacoia. «Due anni fa ho fatto domanda per andare a Reggio, sono in magistratura da trent’anni, penso non esista una persona che per trent’anni di seguito abbia contrastato la ’ndrangheta. Ora me ne devo andare dalla Dda di Reggio Calabria perchè dopo otto anni bisogna cambiare. Se non vado via da Reggio torno alla Procura ordinaria, mentre l’alternativa è andarmene da Reggio Calabria e trovare posto in un’altra Procura», che potrebbe essere quella di Catanzaro. «Se non mi danno un posto da procuratore dovranno vedersela con le migliaia di persone che mi vogliono bene e che questa volta non lo accetteranno», minaccia il procuratore.

Gratteri sa bene che la ‘ndrangheta ormai non ha (quasi) più bisogno di uccidere fisicamente un rivale. Basta infangarlo o umiliarlo per ucciderlo «civilmente». Oppure basta metterlo nelle condizioni di non nuocere più. Finora non ci sono riusciti, ma per quanto tempo ancora?

La storia del povero brigadiere Marino (e in parte di Gratteri) è la prova che non sempre lo Stato è riuscito a difendere i suoi paladini dall’ira delle cosche. È lo Stato che paga il prezzo di non essere riuscito a salvare la vita a un brigadiere coraggioso. Ma chi pensa che mettere in cella un vecchietto quasi novantenne con addosso il cartello «fine pena mai» sia giustizia secondo me è fuori strada.

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