Carolina Girasole è innocente, in nome della legge. È questa è una buona e una cattiva notizia al tempo stesso. È una buona notizia per l’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto, che è riuscita a dimostrare la sua estraneità alle infamanti accuse di ‘ndrangheta e di vicinanza alla famigerata cosca Arena che avevano colpito lei e il marito. È una cattiva notizia per la già martioriata giustizia italiana, che ci ha messo anni per dimostrare una tesi evidentemente indimostrabile. Lo dice la stessa Girasole, a caldo: «È la giusta sentenza per un processo che non si doveva proprio celebrare. Il procedimento a carico mio e di mio marito doveva chiudersi già nella fase delle indagini preliminari. Fin dall’inizio di questa assurda vicenda, abbiamo cercato di gridare la nostra innocenza e di fare sentire la nostra voce, ma questo ci è stato impedito da chi deliberatamente non ha voluto, in nessun modo, ascoltare le nostre pur evidenti ragioni e da chi, invece di cercare di conoscere la verità, ha preferito correre dietro la sensazionalità della notizia di un sindaco antimafia che scende a patti con la ‘ndrangheta».

Anche io, lo confesso, sono caduto nella stessa tentazione, e me ne dolgo. Confesso che le parole di un commento, forse della stessa Girasole, mi hanno acceso una lampadina. Così scriveva qualcuno sul blog: «È vero, peggio della ‘ndrangheta c’è la finta antimafia, così come peggio del giornalismo di facciata che si limita ad analizzare solo pochi elementi spulciati qua e là c’è il giornalismo che continua a buttare ancora più fango di quanto non ne sia già stato buttato, il giornalismo che non persegue la verità. Prima di sentenziare sarebbe stato meglio approfondire, forse all’autore del blog è sfuggito qualche passo del processo in cui è stato dimostrato dalla difesa che le intercettazioni che hanno portato alla distruzione del simbolo antimafia, Dott.ssa Carolina Girasole, diventato simbolo suo malgrado solo perché voleva fare una politica pulita in una regione in cui per molti sembra che di pulito non ci sia nulla, sono intercettazioni trascritte male, non voglio pronunciare la parola “artefatte”, e nessuna delle intercettazioni dimostra che i voti della famiglia Arena siano servite per l’elezione dell’allora sindaco Carolina Girasole».

Proviamo a ripercorrere l’inchiesta, allora: secondo la Dda di Catanzaro (il pm Domenico Guarascio aveva chiesto la condanna a 6 anni di reclusione per la Girasole per corruzione elettorale, turbativa d’asta e abuso d’ufficio aggravati dalle modalità mafiose) dopo le indagini della Guardia di finanza di Crotone che nel dicembre 2013 aveva portato all’arresto dell’ex sindaco e di altre dodici persone, tra cui il marito.

L’accusa infamante per la Girasole era quella di essere stata eletta nella lista civica Sinistra Arcobaleno con i voti della cosca Arena ottenuti anche grazie alla mediazione del marito. I due in cambio avrebbero ricambiato il favore consentendo che gli Arena coltivassero terreni già confiscati dalla magistratura alla cosca, favorendo una ditta che sarebbe stata indicata dagli stessi Arena.

E invece? L’impianto accusatorio nei confronti degli imputati è crollato: oltre alla Girasole, sono stati assolti dall’accusa di corruzione elettorale agravata dalle modalità mafiose il marito e i fratelli Massimo e Pasquale Arena, figli del boss Nicola Arena «perché il fatto non sussiste». Come mosche sono caduti sostanzialmente tutti i capi d’accusa, dalla turbativa d’asta all’abuso d’ufficio aggravato e persino l’accusa di associazione mafiosa contestata al boss Nicola Arena, ai figli e a un quarto imputato, assolto persino dal reato di usura, ma condannato a 4 anni di reclusione e per il reato di estorsione. È rimasta in piedi solo una condanna a 3 anni e 6 mesi di reclusione per turbativa d’asta a Nicola Arena, al figlio Massimo e ad altri due imputati.

Un po’ poco perché per la Procura si possa parlare di un successo. Come è stato possibile imbastire un processo e accusare ingiustamente un ex sindaco antimafia? Chi è stato vicino alla Girasole ed era pronto a giurare sulla sua innocenza prima della sentenza sostiene che la parabola terminata il 3 dicembre 2013 con l’ordinanza di custodia cautelare e i domiciliari per 162 giorni sia iniziata con la sconfitta nelle urne dopo «un percorso fatto di intimidazioni, atti vandalici ed umiliazioni». Le intercettazioni telefoniche che avrebbero dovuto inchiodare la Girasole si sono sgretolate perché «trascritte male» se non addirittura manipolate. E allora? Chi restituirà alla Girasole l’onore perduto? E chi restituirà ai cittadini la fiducia in una giustizia che prima infanga e poi assolve?

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