È stata una settimana horribilis per la ’ndrangheta. Altri 100 arresti tra la provincia di Cosenza e la Liguria, con le famiglie «in trasferta» che facevano affari sulle opere pubbliche grazie a una coop con interessi in settori diversissimi come movimento terra, import-export di prodotti alimentari, sale giochi e piattaforme di scommesse online, lavorazione dei marmi, autotrasporti e rifiuti speciali, produzione e commercializzazione di lampade a led. Due parlamentari come Antonio Caridi di Gal e Pino Galati di Ala considerati al servizio delle famiglie di ’ndrangheta anche a causa di un paio di intercettazioni telefoniche che non lasciano spazio a troppi dubbi. Funzionari delle Agenzie delle Entrate che trescavano con la ’ndrangheta. Il boss del pesce Franco Muto che con il suo clan controllava «ogni respiro» tra Cetraro e Scalea (in provincia di Cosenza) da 30 anni, e prima ancora una Spectre politico-affaristico-massonica guidata dall’ex deputato Psdi Paolo Romeo, già noto alle forze dell’ordine sin dall’operazione Olimpia – che sta alla ’ndrangheta come il cosiddetto maxiprocesso di Falcone e Borsellino sta alla mafia – come referente della mafia calabrese che avrebbe deciso a tavolino tutte le elezioni degli ultimi 15 anni (a volte puntando però su qualche candidato sbagliato ma tant’è) coinvolto anche nelle recentissime inchieste Fata Morgana e Reghion sul condizionamento della criminalità al Comune di Reggio, sciolto per contiguità con la ‘ndrangheta.

È la prova dell’esistenza dei cosiddetti Invisibili cui dà la caccia il pm Giuseppe Lombardo, una sorta di ’ndrangheta superiore che comanda sulla fazione criminale ma di cui la stragrande maggioranza degli affiliati non conosce l’esistenza, come dimostrerebbe l’inchiesta Mammasantissima, e che avrebbe agevolato la latitanza di personaggi che fanno comodo alle cosche (vedi l’inchiesta Breakfast), da Amedeo Matacena al capo della mafia Matteo Messina Denaro, con in mezzo un peso decisivo nell’inchiesta Mafia Capitale. Allora c’è qualcosa che non torna.

Facciamo un salto di sei anni. Alla fine del 2010, nel libro Madundrina scritto con Antonio Monteleone, scrivevamo:
«Forze occulte, servizi deviati, poteri forti e massoneria. Come si combatte un nemico invisibile? Ma, soprattutto, come si dimostra la sua esistenza? Gli inquirenti devono dare una risposta anche a questo quesito». E già allora riportavamo una frase captata durante una delle oltre 500mila intercettazioni, contenuta nelle 52 inchieste passate al setaccio dagli inquirenti, in cui a parlare era un sindacalista, e qui riprendo da Madundrina «che viene descritto dai magistrati come “anello di congiunzione tra esponenti di spicco della locale criminalità organizzata e appartenenti al settore politico-amministrativo della fascia jonico-reggina” e promotore di “una sorta di cupola” (…) perché parte del contesto criminale (…) definito degli “invisibili”. Si chiama Sebastiano Altomonte. Intercettato al telefono con la moglie, a margine di una conversazione su alcuni dissidi locali parla anche della ’ndrangheta invisibile. “Effettivamente gli invisibili siamo cinque(…), lo sanno solo nel provinciale(…)”. Chi sono questi cinque? Che cosa vogliono? Per chi lavorano? Come fanno a sapere tutto? E quanto vale, nell’economia della ’ndrangheta, un’operazione mostruosa come quella congiunta di Milano e Reggio Calabria (parlavamo di Crimine e Infinito, nda), se i boss sapevano tutto (grazie alle rivelazioni di Giovanni Zumbo, legato ai servizi segreti, nda) ? Chi comanda veramente?».

Chi legge questo blog sa cosa penso delle operazioni di ’ndrangheta del 2010 che hanno ispirato il libro, recentemente definite dalla Cassazione come «sentenze storiche» perché definiscono per la prima volta l’unitarietà della ’ndrangheta. Delle due l’una. Perché o ha ragione il procuratore antimafia Ilda Boccassini quando dice che con Infinito si è smantellata la ’ndrangheta in Calabria, quella comandata dal boss scissionista Carmelo Novella, ammazzato come un cane (ma il mandante è ancora oscuro…) perché voleva sganciarsi dalla Calabria, quella del summit al centro Falcone e Borsellino di Paderno Dugnano, quella zeppa di gente senza precedenti penali e senza reati fine oggi in carcere con l’accusa di associazione mafiosa che non hanno neanche mai sparato un colpo di pistola per sbaglio. E che la ‘ndrangheta calabrese fosse comandata da Domenico Oppedisano, che prima di diventare famoso come capo della ’ndrangheta vendeva piantine vicino allo svincolo di Rosarno, talmente pericoloso che di recente è uscito dal regime di carcere duro, il famigerato 41bis. Un esperto in affiliazioni, vero, uno che mangiava pane e ’ndrangheta certamente, ma non un capo. E d’altronde anche il procuratore antimafia Nicola Gratteri lo sostiene con forza. D’altronde, dell’esistenza della maxi inchiesta erano al corrente molti boss, come è emerso dalle intercettazioni.

Oppure la ’ndrangheta che conta quella vera, è altro. È difficile pensare che i boss arrestati fossero veramente a capo della ’ndrangheta milanese mentre facevano il bello e il cattivo tempo altri boss del calibro di Paolo Martino, killer dormiente imparentato con il potentissimo clan dei De Stefano e considerato il vero tesoriere della ’ndrangheta a Milano (solo per fare un esempio). Oggi sappiamo con certezza che una Spectre aveva in mano i destini della politica e trescava facendo affari con parlamentari e coop, anche alle spalle dei picciotti. E se avesse ragione il boss della ’ndrangheta Pantaleone Mancuso, che intercettato dice testuale: «(Ci sono) quattro storti che ancora credono alla ‘ndrangheta… hanno fatto la massoneria… il mondo cambia…»? E se la Boccassini avesse arrestato proprio quei quattro storti, gente che non ha mai tenuto una pistola in mano?

 

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